The Stone of Madness: luci e ombre dello strategico ambientato in un monastero - La Recensione
Un monastero-prigione, prigionieri tormentati e un’ombra di follia. The Stone of Madness prova a reinventare il genere stealth con una gestione della sanità mentale. Un esperimento riuscito o un’occasione mancata?

Negli ultimi anni, il genere stealth ha subito una trasformazione piuttosto evidente. Un tempo pilastro di esperienze immersive e ragionate, oggi viene spesso relegato a semplice opzione secondaria (per la gioia di qualche nostro collega!), inserita più per ampliare le possibilità in un videogioco, piuttosto che per definirne l’identità. Per fortuna, alcuni titoli come Desperados III cercano di mantenere viva la tradizione con strutture flessibili e mondi reattivi, mentre molti altri si limitano giusto a un’implementazione superficiale della furtività, lasciando gli appassionati con poche alternative valide tra le mani.
È qui che The Stone of Madness tenta di distinguersi. Non si limita a proporre meccaniche stealth classiche nel senso stretto del termine, ma le intreccia -in questo caso- con elementi di gestione psicologica e una progressione che ricorda a tratti persino un survival tattico. I prigionieri in fuga non devono solo evitare le guardie, ma anche confrontarsi con le proprie paure, in un contesto che li mette alla prova sia fisicamente che mentalmente.
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Il team di sviluppo di Tequila Works Studios, con il supporto di The Game Kitchen, ha chiaramente tratto ispirazione da riferimenti illustri. Se da un lato il gameplay tattico in tempo reale richiama titoli come Shadow Gambit, dall’altro il tono visivo e narrativo sembra guardare invece a prodotti come Blasphemous, con il quale condivide una fascinazione per la rappresentazione oscura della spiritualità.
L’idea è intrigante: combinare stealth, sopravvivenza psicologica e strategia potrebbe offrire un’esperienza coinvolgente e innovativa per il genere. Ma tra ambizioni e realizzazione concreta spesso esiste una distanza difficile da colmare. The Stone of Madness riesce davvero a ritagliarsi un posto tra i titoli più interessanti dello stealth moderno, o finisce per perdersi nelle sue stesse idee?
Fuga dalla Follia: la storia di The Stone of Madness
L’anno è 1799, un’epoca in cui la comprensione delle malattie mentali è ancora agli albori e la linea tra disturbo psicologico, eresia e possessione demoniaca è spesso labile. In molte aree d’Europa, e in particolar modo in Spagna, la Chiesa detiene ancora un’influenza enorme sulla gestione di coloro che vengono considerati “devianti”. Il confine tra cura e punizione è sottile, e nei luoghi più isolati, come questo monastero/prigione in cui ci troviamo, chi viene etichettato come folle finisce dimenticato, in balia di pratiche più vicine alla tortura che alla medicina.
The Stone of Madness affonda le radici in questa realtà oscura, costruendo un’ambientazione che trasuda oppressione. Qui il disagio mentale è un crimine, la paura è un’arma e l’ignoranza è la mano che impugna il coltello. Il monastero non è solo un carcere, è un luogo in cui chi soffre di fobie, allucinazioni o crisi nervose viene marchiato come un pericolo e ridotto al silenzio con ogni mezzo possibile. Il confine tra realtà e paranoia si assottiglia, e capire chi è davvero il carnefice diventa quasi impossibile.
È una visione della follia che evoca inevitabilmente The Town of Light, con la stessa inquietante consapevolezza di quanto il terrore istituzionalizzato possa essere più spaventoso di qualsiasi mostro. Ma qui il destino dei protagonisti non è solo quello di subire: devono fuggire. Devono ingannare, nascondersi, sfruttare ogni risorsa per non essere risucchiati nelle spire di un sistema che li ha già condannati.
I protagonisti della storia non sono eroi, ma anime spezzate, ognuna con un passato segnato dalla sofferenza e una fobia che ne condiziona le azioni. Eduardo, il gigante silenzioso, è terrorizzato dal buio; Leonora, agile e scaltra, teme il fuoco; Alfredo, un prete infiltrato tra i monaci, può confondersi tra loro, ma è perseguitato dalla vista dei morti. Questi non sono semplici dettagli narrativi, ma elementi che influenzano attivamente il gameplay. Ignorare le debolezze dei personaggi può portarli a crisi nervose, rendendoli inutilizzabili, mentre sfruttare le loro capacità nel modo giusto è fondamentale per orchestrare la fuga.
Sulla carta, il concept narrativo è affascinante, ma nella pratica la storia fatica a emergere come elemento trainante dell’esperienza. Più che attraverso una trama articolata, il gioco costruisce la sua identità tramite dettagli ambientali e frammenti di conversazione, lasciando che sia il monastero stesso a raccontare la sua storia. Alcuni momenti sono particolarmente suggestivi, come la scoperta di passaggi segreti o la rivelazione di certe pratiche oscure, ma nel complesso la narrazione resta frammentaria (più avanti capirete perchè), dando l’impressione che il mondo di gioco sia più interessante della storia che vuole raccontare.
Con due campagne distinte e un sistema che permette di affrontare le sfide in modi diversi, The Stone of Madness garantisce una longevità di circa una quindicina di ore, variabili in base all’approccio del giocatore. Tuttavia, la progressione non è sempre fluida: il backtracking necessario per avanzare e il forte peso del trial and error possono rendere l’esperienza ripetitiva, trasformando la tensione iniziale in pura frustrazione. Quella che in principio è una fuga carica di suspense rischia di diventare un esercizio di pazienza, che potrebbe mettere alla prova anche i giocatori più determinati.
Strategia, furtività e follia: il gameplay di The Stone of Madness
The Stone of Madness si muove su un filo sottile tra azione in tempo reale e strategia, chiedendoti di orchestrare la fuga di un gruppo di prigionieri da un monastero che è tutto fuorché un luogo di redenzione. Le mura trasudano oppressione, la sorveglianza è costante e il pericolo non arriva solo dalle guardie, ma anche da minacce meno tangibili e più inquietanti. Se non bastasse, la stabilità mentale dei protagonisti è un fattore che cambia continuamente le regole del gioco, costringendoti a pianificare ogni passo con estrema attenzione.
Ogni personaggio ha abilità specifiche, ma anche fobie debilitanti che, se trascurate, possono rendere impossibile qualsiasi strategia. Come già accennato, queste paure sono chiare sin dalle prime fasi di tutorial in cui conosciamo i personaggi, motivo in cui capiamo subito che saranno perfettamente integrate nell’ambientazione, costringendo a un cambio continuo del personaggio attivo: pensare di affidarsi a un solo membro della squadra per finire il gioco è praticamente impossibile. Ignorare queste fragilità significa esporre il gruppo a crisi nervose che possono mandare in frantumi un’intera missione.
L’azione si sviluppa in due fasi principali: il giorno è dedicato all’esplorazione, alla raccolta di risorse e alla ricerca di vie di fuga, cercando di evitare qualsiasi scontro diretto; la notte, invece, offre un momento di tregua apparente, in cui il gruppo può ritirarsi in una stanza segreta per curarsi, sviluppare nuove abilità e prepararsi per la giornata successiva. Questo bilanciamento tra gestione e sopravvivenza è senza dubbio interessante, ma a volte il ritmo ne risente. Sarebbe stato intrigante vedere una soluzione più fluida, magari qualcosa di simile a Shadow Gambit: The Cursed Crew, dove la fase gestionale a bordo della nave risultava più armoniosa e meno frammentata.
La struttura aperta del gioco lascia molto spazio alla sperimentazione, incoraggiando a trovare soluzioni creative per superare gli ostacoli. Ma non tutti apprezzeranno il metodo con cui trial and error e ripetitività si insinuano nel gameplay: chi non ha pazienza rischia di veder svanire la tensione in pura frustrazione.
E se la base è solida, alcune scelte di design zoppicano più del dovuto. Il passaggio tra i personaggi non è sempre reattivo e i comandi possono rivelarsi macchinosi nei momenti critici, specialmente quando più membri del team si trovano ammassati nello stesso punto (se succede, meglio iniziare a pregare). A questo si aggiungono bug e imperfezioni tecniche che possono rendere certe sequenze un vero incubo, obbligando a ripetere intere sezioni per colpe che non sono del giocatore.
Un monastero inquietante tra arte ispirata e problemi tecnici
L’atmosfera di The Stone of Madness è senza dubbio uno dei suoi punti di forza, capace di trascinare il giocatore in un monastero del XVIII secolo dove la fede si mescola all’angoscia. La direzione artistica è un colpo d’occhio: ogni ambiente è dipinto con cura, alternando colori cupi e luci tremolanti che trasformano ogni corridoio in una prigione silenziosa. Le texture dipinte a mano e le scelte cromatiche creano un contrasto che rafforza il senso di oppressione, con tonalità fredde che dominano le stanze spoglie e sprazzi di luce calda che illuminano altari e celle. Più che un videogioco, sembra un’opera illustrata in movimento, soprattutto in quelle poche, pochissime cutscene, che lo avvicinano quasi a una serie animata (e ci chiediamo perchè non ne abbiano inserite di più!).
L’estetica fa gran parte del lavoro, ma il sound design non è da meno. La colonna sonora non si prende la scena, non cerca di imporsi, ma fa il suo sporco lavoro con discrezione. È nei dettagli sonori che il gioco costruisce davvero la tensione: il rumore dei passi sul pavimento di pietra, il vento che sibila tra le finestre socchiuse, i lamenti lontani dei prigionieri. Ogni suono contribuisce a rendere la fuga più claustrofobica, più soffocante, più inquietante.
Dal punto di vista tecnico, però, il quadro si incrina. Se l’art direction colpisce nel segno, il gameplay non riesce a mantenere la stessa qualità. I controlli sono legnosi, il passaggio tra i personaggi è macchinoso, e la selezione degli oggetti è imprecisa. Un problema da poco? Dipende. Nei momenti più tesi, quando ogni secondo conta, ritrovarsi a lottare contro i comandi invece che contro i nemici può trasformare la tensione in frustrazione.
A complicare ulteriormente il coinvolgimento, manca completamente il doppiaggio, una scelta che smorza l’impatto narrativo. Un peccato, perché una voce ben interpretata avrebbe dato più spessore ai momenti chiave e reso i dialoghi più immersivi, invece di spezzarli con finestre di testo che interrompono il ritmo.
Sul fronte prestazioni, nessuna sorpresa: il gioco gira senza problemi, ma vista la sua natura indie e lo stile artistico scelto, non ci aspettavamo certo un mostro di risorse. Non è un titolo che punta sulla potenza grafica, ma su un’identità visiva forte. E, almeno su quel fronte, riesce a lasciare il segno.
Versione Testata: PC
Voto
Redazione

The Stone of Madness: luci e ombre dello strategico ambientato in un monastero - La Recensione
In definitiva, The Stone of Madness offre un comparto artistico suggestivo e un sound design efficace, elementi che contribuiscono a creare un’atmosfera inquietante e coinvolgente. Tuttavia, le problematiche tecniche e la mancanza di rifinitura in alcuni aspetti fondamentali del gameplay rischiano di minare l’esperienza complessiva, trasformando la tensione in frustrazione. Se il team di sviluppo dovesse rilasciare aggiornamenti mirati a correggere i principali difetti, il gioco potrebbe rivelarsi un’esperienza ancora più solida e apprezzabile dagli amanti del genere.