Il problema dell’essere bravi: cosa ci racconta la chiusura di Monolith Productions
L'inaspettata chiusura di Monolith Productions solleva interrogativi sul futuro dell'industria videoludica e sul valore dell'eccellenza creativa.

Di recente il mondo dei videogiochi è stato scosso da una notizia che sembra uscita dal perfetto incubo tardo-capitalista: Monolith Productions chiude. Un’istituzione nata nel 1994, simbolo di innovazione e passione per titoli divenuti veri e propri cult come F.E.A.R., No One Lives Forever e la duologia Shadow of Mordor. La decisione, annunciata da Warner Bros. Games come parte di un “cambiamento strategico di direzione” ha lasciato non solo un vuoto nei cuori dei fan, ma anche una serie di interrogativi più vasti e astratti, realizzazione dei più selvaggi rumor su creatività, indipendenza e destino di un settore sempre più dominato da logiche puramente commerciali.
Coltellini svizzeri
Per Monolith eravamo tutti preoccupati da parecchio tempo: il loro ultimo titolo, Middle-earth: Shadow of War, risale all’autunno 2017. Pur essendo ricevuto da critica e fan da un clamore relativamente tiepido, il secondo capitolo della saga Tolkieniana sbanca il botteghino e piazza, secondo le ultime stime, oltre due milioni e mezzo di copie nel primo anno vitale, circa il 20% in più rispetto al predecessore. Un numero che già allora fece tirare un grande sospiro di sollievo agli appassionati, titubanti e spaventati non tanto dalle casse dello studio americano, quanto dalla famosa volatilità umorale dei suoi proprietari newyorkesi: quella Warner Brothers Universal in perenne crisi identitaria dal nuovo millennio che si era affacciata al florido mondo del gaming arraffando prima i resti della povera Midway, e poi quella realtà sforna capolavori chiamata Rocksteady. Monolith galleggiava dentro ai gangheri di quella megacorporazione già dal 2004, usata spesso come vero e proprio utility studio.
I multiplayer a squadre vanno forte e volete svilupparne uno a tema Batman? C’è Monolith.
Caspita però questi MOBA sono davvero popolari, chi potrebbe farne uno basato sul Signore degli Anelli? C’è Monolith.
Abbiamo questo progetto MMO sull’universo Matrix in totale stato di decomposizione, chissà se qualcuno potrebbe tentare di chiuderlo in maniera dignitosa? Ecco Monolith.
La storia delle software house subsidiary è ricca di esempi simili: curriculum costellati di palesi richieste arrivate dall’alto che servono più a mantenere i rapporti con la dirigenza che puntare realmente al GOTY. È il prezzo da pagare per oliare gli stessi ingranaggi che realmente permettono all’industria di progredire. Condemned: Criminal Origins è schiacciato fra The Matrix: Online e Contract J.A.C.K. in ordine di uscita, un dettaglio che fa sempre sorridere.
Quando il talento è il tuo peggior problema
Ecco perché quando viene annunciato Wonder Woman, (teoricamente) l’ennesimo action open world in terza persona non si annusa grande sorpresa nell’aria, al massimo un po’ di rassegnazione. È come scoprire che uno dei tuoi registi preferiti è al lavoro su un cinecomic qualsiasi: probabilmente lo guarderai, sarà un ottimo compitino, recupererà i costi di sviluppo e ce ne dimenticheremo fra meno di un lustro. Eppure stavolta è andata diversamente: i silenzi si fanno sempre più lunghi, i comunicati stampa più radi, le prime uscite dallo studio parlano di molteplici reboot a fronte di un mercato che sta violentemente virando verso altre meccaniche. Ricordate quando vi parlavamo dei due milioni e mezzo di copie vendute dal secondo Mordor? Ecco, a quanto pare non sono stati sufficienti. Warner apparentemente si aspettava altri numeri, i famosi “Arkham numbers” che internamente avevano fissato una pericolosissima asticella.
A rendere ancora più amara la scomparsa di Monolith è la consapevolezza di quanto rara fosse diventata la sua esistenza già all’alba degli anni Duemila. Mentre giganti come id Software e Epic consolidavano il loro potere trasformandosi in fornitori di tecnologia più che in fucine di idee, e realtà come 3D Realms scivolavano in una lenta eutanasia creativa, Monolith rappresentava una delle poche software house di medie dimensioni a mantenere una voce propria. Raven Software, che negli anni Novanta aveva dato al mondo capolavori come Heretic e Hexen, entrava in una fase di torpore forzato, trasformandosi sempre più in uno studio di supporto per progetti altrui e finendo nell’attuale stato di catatonia nella catena di montaggio Call of Duty.
3D Realms, reduce dal pantano di Duke Nukem Forever, esisteva ormai più come un brand nostalgico che come una vera realtà produttiva. Monolith, in questo scenario di desertificazione creativa, rappresentava uno degli ultimi baluardi di un certo modo di fare videogiochi: sperimentare, rischiare, fallire e ricominciare. Lo faceva alternando titoli dal budget contenuto come Shogo: Mobile Armor Division o Blood 2, a progetti più ambiziosi come F.E.A.R., dimostrando che anche con risorse limitate si poteva lasciare un segno profondo nella cultura videoludica. Una rarità preziosa in un’epoca in cui il mercato iniziava già a polarizzarsi tra colossi tripla A e produzioni indie, lasciando sempre meno spazio per quelle realtà intermedie che, paradossalmente, avevano definito l’identità stessa del medium negli anni precedenti.
Vittime delle Macro Excel
Le ragioni alla base di questa brusca decisione sono molteplici e vanno ben oltre una semplice ristrutturazione interna. Secondo approfondimenti di Bloomberg e le rivelazioni di Jason Schreier durante il podcast di Kinda Funny Games, Monolith aveva già sperimentato anni difficili dopo il lancio del “deludente” Shadow of War e un tentativo fallito di creare un nuovo IP, in codice “Legacy”, che avrebbe dovuto rappresentare una ventata di innovazione. Tuttavia, la direzione di Warner Bros. era un’altra: franchise consolidati – come Harry Potter, Mortal Kombat, DC e Game of Thrones – come unica strada a disposizione, piuttosto che rischiare con idee originali senza garanzie di riuscita.
A peggiorare ulteriormente la situazione, la scelta di insistere sull’utilizzo del motore in-house, nonostante le evidenti difficoltà tecniche e la perdita di personale esperto, rallentò e complicò ancor di più lo sviluppo di ogni bozza. I continui reboot e le revisioni forzate crearono un clima di frustrazione e sfiducia all’interno dello studio, lasciando chiaro che Monolith Productions era stato, in effetti, costretto a lavorare su un prodotto che non voleva realizzare. Il progetto nato come il più classico degli open world “alla Insomniac” cambia drasticamente, dev’essere più vicino alla rigidità di traversing dei recenti God of War. Questa inversione imbizzarrita – che implicava l’eliminazione del celebre Nemesis System, elemento distintivo degli ultimi titoli Monolith – trasformò quello che avrebbe potuto essere un’opportunità di rinnovamento in un vero e proprio disastro produttivo, dove il team si trovò a realizzare un progetto che non rispecchiava le proprie aspirazioni creative.
Un vincolo imposto non solo comprometteva la qualità finale del progetto, ma segnava anche un punto di non ritorno per la creatività del team, costringendolo a piegarsi a una visione aziendale che sacrificava l’innovazione sul banchetto dei profitti immediati. La tristezza per la fine di Monolith Productions non è solo una questione nostalgica: si tratta dell’ulteriore segnale degli eccessi e delle contraddizioni di un’industria sempre più spinta da falsi ideali di profitto, pianificati in sale riunioni di mogano e pelle umana, i cui fallimenti strategici, alla fine, colpiscono solo chi mette le mani sul codice.