Kojima si racconta in un libro attraverso i meme
L'infanzia, la solitudine, le librerie da MGS a Death Stranding

Kojima è stato un meme prima che la parola meme potesse liberamente essere pronunciata all’aperto, in luoghi frequentati da altri esseri umani, senza subire occhiate di sconcerto o compatimento. Forse, prima di lui, lo sono stati anche parecchi dei suoi giochi. Snake nascosto nella scatola, Fatman sui rollerblade, il gioco che legge il contenuto della memory card e lo commenta sono situazioni citate e recitate in infinite discussioni online. Ma all’annuncio di ogni nuovo MGS, in ogni forum (tipo l’antenato dei social media, per i più giovani) di videogiochi sul pianeta spuntava inesorabile la citazione di Kojima, presa a caso da una delle numerose occasioni in cui avrebbe giurato alla stampa che quello sarebbe stato il suo ultimo Metal Gear Solid prima di dedicarsi ad altro. Leggendo Il gene del talento e i miei adorabili meme, raccolta di saggi scritti dallo stesso Hideo Kojima, ho imparato che il game designer giapponese ha un’idea tutta sua di cosa sia un meme, ma anche (tra le tante altre cose) che quelle dichiarazioni erano sincere e che Death Standing vagava senza forma nella sua testa già allora.
Il gene del talento e i miei adorabili meme, un libro di Hideo Kojima
Programmatore, sceneggiatore, game designer, produttore, imprenditore, regista, uomo di spettacolo e frontman (forse involontario) dell’industria videoludica: tra i tanti talenti di Hideo Kojima, il meno noto è quello di scrittore. Tra il 2007 e il 2013 Kojima ha infatti collaborato con due diversi magazine giapponesi firmando una rubrica periodica di critica. Prima per Papyrus, magazine di arte e cultura al cui interno trovano spazio diversi aspetti della vita giapponese: qui Kojima scrive dei suoi grandi classici, canzoni, libri, film o addirittura concetti che hanno influenzato la sua crescita personale. Poi per DaVinci, mensile di letteratura, dove recensisce libri spaziando tra le novità del momento e volumi letti in passato e rimasti a modellare le sue visioni.

Il gene del talento e i miei adorabili meme è una raccolta di saggi, ovvero gli articoli pubblicati al tempo, accompagnata da un’introduzione e una postfazione vergate entrambe da Kojima stesso, oltre che da un dialogo tra l’autore e Gen Hoshino (musicista, attore e scrittore giapponese), un utilissimo “Chi è Chi” e il riepilogo delle principali opere citate. La semplice analisi del sommario tuttavia tuttavia non restituisce affatto l’immagine di ciò che il volume contiene. Sparsa tra decine di recensioni e analisi scorre sotterranea un'autobiografia minima del Kojima precedente all’industria del videogioco, istantanee che spesso fanno da spunto di partenza per l'articolo del caso e che costruiscono una rete di collegamenti che attraversa l'intero volume. Il solito Kojima.
Il ritorno in libreria del volume con una nuova edizione pubblicata da JPop (che aveva già portato in Italia il volume con la brillante etichetta 451 nel 2021) sfrutta ovviamente l’onda lunga della recente uscita di Death Standing 2, ma è anche uno strumento davvero utile per capire da dove origina la sua spesso ermetica produzione videoludica.
I meme secondo Kojima
L’idea di meme a cui fa riferimento Kojima (che poi è la stessa alla base del concetto di meme dell’era di internet) è la formulazione elaborata da Richard Dawkins che definisce il meme come un’idea, un comportamento che si diffonde attraverso l’imitazione attraverso una cultura. Si tratta di un'unità minima di cultura, trasmissibile: nelle intenzioni e nelle descrizioni, i meme sono insomma il corrispettivo culturale dei geni (intesi come la basa della genetica), quel pezzo di noi che trasmettiamo alle nuove generazioni, e funzionano grosso modo allo stesso modo.
Kojima inizia inconsciamente fin da bambino a collezionare i suoi meme, scoprendo da solo la lettura pescando un libro giallo in libreria, per caso, quasi un atto di ribellione verso gli innumerevoli tentativi dei genitori di spingerlo alla lettura. Cresce con le chiavi di casa in tasca, tornando da solo dopo scuola e riempiendo di voci dalla tv la casa per allentare la morsa della solitudine. Quest’ultima, la solitudine, rappresenta il filo conduttore dell’infanzia di Kojima, condizione che l’autore in fondo impara quasi ad accettare ricercando altrove, spesso tra gli scaffali di una libreria, lo scambio di idee mancante nella dimensione sociale e scolastica.

È lì che cova senza dubbio l’idea di fondo di Death Stranding, ma non basta da sola a riempire un immaginario. Attraverso il rapporto con la cultura inclusa quella straniera Kojima sviluppa anche un particolare legame con le storie che legge, ma anche con i concetti stratti che le compongono, ragionando spesso sulle modalità delle loro conclusioni e sulle differenze di percezione tra autore e fruitore. Stralci di recensione, sempre riferiti ad altro, ma che costruiscono una traiettoria teoretica attraverso cui si può poi rileggere e ritrovare la carriera professionale di Kojima.
Kojima è uno scrittore misurato, riflessivo, sempre pacato nei toni e nei (non così rari) giudizi, mai polemico, ma muovendosi dalla filosofia che frequentare la cultura serva ad affinare l’intuito per quel 10% di capolavori che popola le librerie assume un approccio ben poco schizzinoso, forse a volte fin troppo indulgente, ma efficace per trovare un meme all’interno di quasi ogni opera. La misura nella sua scrittura si esprime anche attraverso la semplificazioni dei concetti, che passano attraverso frasi semplici, brevi, prive di inutili complicazioni. In controluce, poi, emergono piccoli dettagli di vita quotidiana giapponese, abitudini oltre che opere, che costituiscono un ulteriore livello di scoperta concesso dal volume.
Quella offerta da Il gene del talento e i miei adorabili meme è di sicuro una possibilità di conoscere una parte di Kojima, seppur mediata da Kojima stesso attraverso il suo approccio alla scrittura, in cui da un lato apre scorci sulla sua giovinezza e la sua vita personale, mentre dall’altro smussa fin troppo il suo senso critico, dando l’impressione di offrire in alcuni casi una versione presentabile in pubblico di un pensiero più remoto. È però comunque un’opportunità abbastanza imperdibile (a prescindere da come la si pensi su Kojima) per sbirciare sotto le dichiarazioni di facciata di un autore e scoprire aneddoti, episodi e riflessioni attraverso cui si è formata la sua poetica. Nel cinema succede spesso, magari in concomitanza con gli eventi stampa connessi all’uscita di un film, che un regista si perda in chiacchierate, interviste o podcast in cui emergono metodi di lavorazione, scelte o magari modifiche in corso d’opera. Nel videogioco (per una lunga lista di ragioni) accade molto più di rado e la nostra comprensione del medium purtroppo ne risente. Cetto non tutti i game designer potrebbero fare i critici letterari a tempo perso, però, come Kojima.


