Oscar 2025: perché ha trionfato Anora? Cosa racconta davvero questa vittoria
Cosa significa davvero la vittoria agli Oscar 2025 di Anora di Sean Baker e cosa ci racconta della Hollywood che lo ha votato come miglior film.

Anora non ha semplicemente vinto: ha trionfato agli Oscar 2025. Non c’è altro modo di descrivere le quattro statuette che il suo realizzatore Sean Baker potrà da oggi esporre sulla mensola di casa: quelle per miglior film e miglior regia, ma anche quelle meno scontate per miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio. Quattro Oscar nelle mani di una sola persona dietro un film indipendente, senza poi contare la vittoria come miglior attrice protagonista strappata dalla giovane Mikey Madison a una concorrenza agguerrita e sostenuta dagli studios: quella di Demi Moore.
Che piaccia o meno meno il film in sé, è interessante riflette sul film che viene coronato come vincitore. È importante farlo ogni anno perché è la stessa Hollywood a votarlo e sostenerlo. Non è (solo) una questione di preferenze. Anora, come ogni film che l’ha preceduto, racconta una storia e un momento cinematografico: quello in cui i membri dell’Academy l’hanno scelto per rappresentarli, perché aderiva meglio di ogni altro all’idea di cinema che in quel momento piaceva o volevano trasmettere. Cosa significa, dunque, la vittoria di Anora agli Oscar 2025?
Sean Baker dall’ingegno multiforme: Anora è la vittoria di un uomo sugli studios
La prima considerazione da fare in merito è che Anora sancisce la vittoria di un uomo solo. Lo si è capito anche senza conoscere la storia dietro al film quando Baker, il suo regista, è salito per la terza volta sul palco a ritirare una statuetta che gli spettava. Il regista di Anora infatti il film l’ha scritto, diretto, montato e prodotto.
Insieme al discorso di ringraziamento dei suoi produttori alla vittoria come miglior film, ne esce una chiara vittoria del cinema indipendente e di piccole dimensioni. Quello in cui, appunto, non tanto per volontà di controllo quanto per necessità e costi il regista mantiene su di sé più profili ed è coinvolto a ogni livello nella realizzazione del prodotto finito.
Sappiamo dal dietro le quinte del film che Anora avrebbe potuto raccontare uan storia diversa. Baker infatti aveva bussato alla porta di Universal, che da noi il film lo distribuisce, chiedendo un sostegno economico per il progetto, ma aveva ricevuto un sì con molte condizioni come risposta. Universal era pronta a sostenere Anora a patto che Baker smussasse la pellicola, la mondasse delle parti più esplicite, trasformandola in un prodotto meno sfidante per il pubblico e più in linea con il catalogo della major.
Baker ha detto no e, pur di mantenere il controllo artistico, ha fatto tutto da sè: 37 giorni di riprese, una troupe di appena 40 persone, 6 milioni di dollari di budget. Lo ha anche ribadito sul palco. Anora è il trionfo del cinema indipendente, quello che si finanzia e si muove fuori dal circuito degli studios. Un trionfo certificato da un altro dei rifiutati da Universal, sostenuto invece da A24, realizzato con un budget risicato: The Brutalist di Brady Corbet.
Hollywood ha scelto quindi di dare un segnale forte in questa direzione e non è la prima annata che succede. Segnale che, va sottolineato, non coincide con l’indirizzo del pubblico, che sia nel caso di Anora sia nel caso di The Brutalist non ha macinato grandi numeri. Nonostante questo, l’Academy ha preferito ai blockabuster nominati (Dune e Wicked) e a film sostenuti dagli studios (A Complete Unknown), opere dalla storia produttiva più complessa, i cui registi hanno dovuto lottare e che non si arricchiranno né prima né dopo questi Oscar.
Anora è anche la sconfitta di Netflix
Visto dall’Italia è un discorso un po’ distante, ma che vale comunque la pena di fare. Anora segna un’altra, importante vittoria. Quella dei distributore che ha creduto nel progetto e ne ha curato la campagna di promozione agli Oscar: NEON, diventata negli ultimi anni una superpotenza in questo senso, pur rimanendo a sua volta una realtà indipendente.
Oltre agli studios tradizionali (come ad esempio Universal, che spingeva Wicked e Warner Bros che ha fatto il minimo indispensabile per Dune - Parte due), c’è un altro concorrente in campo: Netflix, che ogni anno investe decine di milioni di dollari verso un traguardo che continua a sfuggirle. Il gigante dello streaming infatti insegue da anni il sogno e il traguardo di vincere da produttore o da distributore la statuetta come miglior film. Con il budget che si trova a disposizione, è uno scontro impari con realtà come quella di NEON.
Perché questa smania? Perché a Netflix non piace l’associazione del cinema alla sala - associazione per cui Sean Baker ha speso un intero discorso di ringraziamento dei quattro a sua disposizione - perché vuole diventare il simbolo, l’egida del cinema senza passare per la distribuzione tradizionale. Il che spiega già perché molti votanti sono guardinghi e ostili verso i suoi film, di principio.
Votanti che, come Sean Baker, sanno che l’ecosistema delle sale è cruciale per ripagare l’investimento iniziale del film, per lasciare il controllo creativo agli autori, senza la tirannia della piattaforma (il botteghino ha le sue logiche, ma non verrà a bussarti alla tua porta dicendo che hai perso troppo engagement al minuto 4 del tuo precedente film). Un sistema più trasparente di una piattaforma che costruisce la sua narrativa, non rendendo pubblici i numeri legati alla popolarità dei suoi prodotti, o facendolo secondo metriche arbitrarie che rendono complessa la lettura degli stessi.
Netflix quest’anno sembrava avercela fatta, ma è stata sfortunata: il cavallo sui cui aveva puntato, il francese Emilia Perez, è stato travolto da uno scandalo dietro l’altro. Dopo aver investito (si dice) 40 milioni di dollari nella campagna a sostegno del titolo e dopo aver conquistato 13 nomination (un numero impressionante, che faceva presagire una pioggia di statuette) il film è stato travolto da numerose critiche e scandali che ne hanno compromesso la vittoria anche in categorie “facili” da conquistare, come quella a Miglior film internazionale. Il numero di candidature raggiunte prova però come il budget faccia la differenza, eccome.
Nell’altro angolo del ring c’è NEON, un distributore statunitense di piccole dimensioni assurdo agli onori delle cronanche negli ultimi anni per la grande capacità di lanciare la corsa agli Oscar dei film che acquisisce per il mercato statunitense. Tanto da lasciare con il dubbio: NEON è particolarmente brava a selezionare titoli in grado di raggiungere questi traguardi o ha campagne così efficaci che, come e più di Netflix, i vincitori li plasma? Lo stesso discorso, più in piccolo, si può fare per A24, che distribuisce e produce: è stata il primo distributore indipendente della nuova era a mettere le mani sull’Oscar a miglior film, strappandolo alle major. Era l’anno di La La Land contro Moonlight. A24, non a caso, sta dietro il successo di The Brutalist.
Questo ulteriore successo sancisce un fenomeno contrario, che gioverà ad altri film negli anni a venire: quando un film viene acquisito per la distribuzione negli Stati Uniti da NEON o A24 diventa automaticamente “un sorvegliato speciale”, ricevendo subito attenzione dagli addetti ai lavori perch l’interessamento di questi distributori significa una concreta possibilità che possa fare un percorso come quello di Anora.
Flow come Anora e Parasite: una vittoria storica per l’animazione
La vittoria di Anora unita ad altri premi della serata indicano che l’Academy è sempre meno restia verso il cinema internazionale. Il film di Sean Baker è statunitense, certo, ma la star più famosa del suo cast al momento del lancio era Yuri Borisova, stella del cinema russo e amatissimo interprete del circuito festivaliero europeo. Anora stesso è un racconto di migrazione e radici che salta continuamente dall’inglese a russo: una ventina di anni fa questo fattore l’avrebbe in partenza condannato a venire snobbato.
Questa vittoria va letta nel novero di un quadro generale sempre più accogliente verso nominati e vincitori di altre nazionalità, verso il cinema che un tempo si definiva straniero. In questo senso la vittoria più importante, un vero momento storico, è quello in cui il film lituano Flow ha trionfato come miglior lungometraggio animato, interrompendo lo storico dominio Disney Pixar in questa categoria. È una vittoria alla Parasite, che forse sancirà un prima e un dopo, aprendo le porte all’animazione orientale, a quella europea, a quella indipendente in questa categoria. Si era sperato succedesse con Hayao Miyazaki e la sua vittoria con La città incantata, ma i tempi non erano ancora maturi.
Flow nei fatti è l’Anora dell’animazione di quest’anno: un prodotto indipendente, su cui il regista Gints Zilbalodis ha mantenuto un controllo creativo quasi totale, contribuendo in maniera sostanziale all’animazione del film, alla realizzazione del suo sonoro e alla una produzione.