The Mastermind, recensione Josh O’Connor non perde il vizietto per il furto "ad opera d'arte"

Emozionalmente schivo e quasi respingente, The Mastermind è il grande ritratto “nascosto” di un colpo disastroso che sfiora la perfezione e rivela un uomo altrimenti inconoscibile.

The Mastermind recensione Josh OConnor non perde il vizietto per il furto ad opera darte

Viviamo tempi strani, tempi in cui a distanza in un paio d’anni scopriamo che al Festival di Cannes è nato e cresciuto un bizzarro cinematic universe autoriale: quello in cui Josh O’Connor interpreta bizzari ladri di opere d’arte per registe da sempre amatissimi dai cinefili che tengono il polso delle vicende festivaliere, ma ancora poco note al grande pubblico.

Onore al merito alla nostra Alice Rohrwacher, che ci è arrivata per prima con La Chimera, passato un po’ inosservato a Cannes ma poi esploso a livello internazionale (una piccola implosione, sempre entro i limiti del mondo degli utenti ossessivi di Letterboxd).
In chiusura di concorso, nelle ultime ore prima della definizione del Palmares, raccoglie idealmente il suo testimone l’americana Kelly Reichardt. In The Mastermind infatti, ultimo titolo presentato a Cannes per la corsa alla Palma d’Oro, ritroviamo Josh O’Connor nei panni di un bizzarro ladro di opere d’arte. L’approccio è ancora più radicale di quello già autoriale di Rohrwacher, con il consueto, affascinante modo di dire tutto senza esplicitare niente proprio di questa regista.

The Mastermind, recensione Josh O’Connor non perde il vizietto per il furto

Il furto di Mastermind è un colpo perfetto mancato di pochissimo

Prendiamo per esempio l’ambientazione. Il film si apre nel Massachusetts degli anni ‘70, così sedato nei colori e nei toni che le voci della contestazione contro la guerra in Vietnam arrivano come un eco ovattato. D’altronde James Blaine Mooney (Josh O’Connor) non sembra avere aspirazioni politiche o personali di sorta e anzi, punta a lavorare come falegname il minimo necessario per mantenere moglie e due figli e godere di molto tempo libero, che spende per buona parte nel museo di Framingham. La realtà in cui vive è così sonnacchiosa che, con enorme maestria, la regista scrive il grande colpo da lui ideato come un trionfo di ritmo minimo e tensione a bassa frequenza. Nessuno urla, nessuno corre, le pistole non sparano, le guardie nelle sale continuano a dormire mentre quattro tele astratte di Arthur Dove vengono sottratte dal museo.

Il piano è appunto di James, la mastermind del titolo che rimane in perenne bilico tra genio del crimine e amatore di grande sprovvedutezza. Di fatto The Mastermind racconta la banalità, l’anticlimaticità, la non spettacolarizzazione e anche la scarsa destrezza e l’improvvisazione con cui alcuni grandi colpi d’arte sono stati compiuti, come per esempio quello al Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, che ancora ha alle sue pareti gli spazi vuoti delle opere rubate in uno dei colpi più celebri della storia museale statunitense.

The Mastermind racconta un colpo che va vicinissimo a essere quel tipo di ardito azzardo che si rivela perfetto ma diventa molto velocemente - e sempre con grande pacatezza - un rovinoso disastro per quanti ne rimangono coinvolti. A colpire è proprio come Kelly Reichardt lavori per sottrazione nella reazione emotiva di chi scopre l’accaduto. Emblematico per esempio è il modo in cui Alana Haim, che interpreta la moglie del protagonista, si chiude in un mutismo scioccato, mentre il marito le confessa a disagio che vorrebbe che lei gli urlasse contro. È la summa del rapporto tra il film e il suo pubblico, che la regista non tema di frustrare con le due reticenze.

The Mastermind racconta una mente plasmata dagli inquieti anni '70

Il furto e le sue ricadute si rivelano il colpo di mano di una regista che da questo avvio rivela poi il vero obiettivo della sua pellicola: quella di costruire per continue sottrazioni il ritratto di un uomo inquieto, vanesio e inconsapevole, che incarna i sentimenti turbolenti e inesperessi di un’epoca altrerttanto difficile per la nazione statunitense.

Non a caso The Mastermind diventa anche un road movie di un uomo in fuga dove pian piano l’onda d’urto delle manifestazioni studentesche rompe la palette squisitamente autunnale e pittorica costruita sin dall’avvio dalla regista. La radio e la TV in sottofondo prima, i manifesti e le manifestazioni vere e proprie poi, di cui il protagonista è mero spettatore, ma da cui viene comunque in qualche modo influenzato. Lo scopriamo in un finale che riesce nell’incredibile impresa di essere un colpo di scena ma ancora una volta con il volume abbassato al minimo.

The Mastermind, recensione Josh O’Connor non perde il vizietto per il furto

Tutte le svolte di The Mastermind infatti si consumano in un’ostinata ricerca di un modo anticlimatico di mettere a parte lo spettatore di ciò che cerca di capire dall’inizio, ovvero delle motivazioni per cui JB ha organizzato il colpo, del perché ha preso di mira quelle opere. A differenza dell’altro film visto in concorso con O’Connor protagonista - il deludentissimo History of Sound - The Mastermind decide saggiamente di rivelarci il minimo necessario per farci intuire tutto quello che James è stato prima di diventare il marito e padre raccontato nel film, lasciandoci però importanti interrogativi su chi sia e se gli importi qualcosa della vita, o anzi, delle vite che si è già lasciato alle spalle con sorprendente facilità.

Sin dai raffinati titoli di testa in verticale e dal piccolo “colpo” di prova che apre il film Kelly Reichardt regala una grande regia abbinata a un certosino montaggio da lei curato. Ogni inquadratura è studiatamente costruita per far emergere poco a poco i contrasti latenti nella sua storia. C’è per esempio una scena bellissima che rivela il suo talento per il racconto per immagini. Per evitare di essere visibile dalla strada, James usa due camicie appese davanti alla finestra a mo’ di tenda. Indumenti che sono ovviamente in palette con i toni caldi, autunnali che avvolgono gran parte del film in un’atmosfera calorosa e accogliente, diametralmente opposta al gelido minimalismo emozionale del protagonista. La mattina il sole colpisce le camicie e, in controluce, appare nella tasca di una delle due quello che si rivelerà essere un documento che darà una nuova spinta alla fuga del protagonista.

Kelly Reichardt però è davvero diabolica e lascia al destino una forza indifferente e casuale che trasforma spesso i colpi di fortuna in evitabili trappole, come magistralmente mostrano nella scena finale ambientata a Cincinnati. D’altronde The Mastermind non è il genere di film che detta alla sua trama sviluppi che si trasformino in morali o messaggi. Pur così costruito e controllato a livello visivo, con tutti quei movimenti verticali (la scala nel fienile, la porta del garage) e un controllo cromatico che detta persino le pietanze nei piatti dei protagonisti, The Mastermind lascia che a condurre la trama non ci sia la forza di un messaggio o di una morale, ma la sconcertante casualità del reale, del quotidiano. 

The Mastermind

Durata: 110'

Nazione: Stati Uniti

8

Voto

Redazione

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The Mastermind

The Mastermind è un film tanto grandioso quanto respingente e che probabilmente annoierà chiunque al di fuori del ristretto pubblico che in esso troverà qualcosa di ormai molto raro nel cinema contemporaneo. Innanzittutto un ritratto sconcertante ma molto autentico di una certa sensibilità intrisecamente connessa agli anni ‘70. Un periodo complesso e contraddittorio, uno dei più distintivi del Novecento e al contempo quello con cui forse oggi facciamo fatica di più a connetterci emozionalmente. Kelly Reichardt traccia il ritratto di un uomo che è figlio e simbolo di quella decade, che non viene spiegata, ma quantomeno mostrata in tutta la sua distanza dal nostro presente. Il punto del film è farci capire quanto il nostro qui e ora renda difficile anche solo ipotizzare che succeda davvero nella testa di una personatanto intelligente quanto profondamente ingenua e vanesia come Mooney.

Il secondo tratto che lo rende ancora più prezioso ma probabilmente più irritante è che non ha risposte per il pubblico e nemmeno grandi rivelazioni, anzi. I momenti di scarna verità sul protagonista e i motivi dietro i suoi gesti sono i passaggi più anticlimatici del film e più che fornire risposte, aprono tutto un nuovo ventaglio di domande. A chi piace però scavare ed essere sfidato, a chi detesta le risposte facili che plasmano anche il corso degli eventi narrativi di un film, The Mastermind piacerà da impazzire.

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