Presence è una ghost story essenziale ma mai fredda: la recensione della prospettiva fantasma di Steven Soderbergh

Dopo Black Bag e ancora una volta insieme allo sceneggiatore David Koepp Soderbergh torna a esplorare generi per lui nuovi, in quello che è molto più di un esercizio di stile.

Presence e una ghost story essenziale ma mai fredda: la recensione della prospettiva fantasma di Steven Soderbergh

Per il solito cortocircuito distributivo che caratterizza spesso registi molto prolifici e dai film di dimensioni medio-piccole come il Steven Soderbergh di oggi, abbiamo visto al cinema prima la sua ultima fatica, la sleeper hit Black Bag e solo ora Presence, una ghost story che in realtà precedeva la sua incursione nello spionaggio classico con Cate Blanchett e Michael Fassbender. Curioso che succeda proprio con un film che ci vede calarci nei panni di un’entità fantasmatica che non sa bene chi sia o perché infesti la casa appena acquistata dalla famiglia protagonista, una presenza che diventa la nostra prospettiva di spettatori, vincolata nel tempo e nello spazio casalingo, ridotta a seguire un racconto lineare da dentro un armadio o facendo su e giù dalle scale.

Presence è una ghost story essenziale ma mai fredda: la recensione della prospettiva fantasma di Steven Soderbergh

La prospettiva fantasma al cinema è ormai un topos, da The Others a A Ghost Story, perciò non è (più) il gioco di prestigio che tiene in piedi un film. Soderbergh perciò la rende esplicita esasperandola, distorcendo i confini dell’immagine e i volti dei protagonisti quando si avvicinano all’obiettivo, quasi perennemente grandangolare, montato sulla cinepresa. In mano ad altre mani con meno esperienza e meno sensibilità cinematografica e umana, l’operazione deraglierebbe ben presto in un vuoto esercizio di stile reiterato e un po’ odioso. Lo scrivo perché non mancano esempi di giovani autori che inseguendo ha scelta “estrema” in ambito stilistico o narrativo, ci hanno inflitto film che da una buona idea sulla carta sono diventati un supplizio in sala. Anche se qua e là Presence perde il suo passo, anche se i lunghi tagli a nero e la cesura netta tra una lunga scena e l’altra hanno piazzamenti bizzari e spesso pretestuosi, Soderbergh riesce a sfornare un ottimo film fatto di pochissimo, con quella sua cifra stilistica fatta di un certo non rifinito. Il regista è la classica personalità che si innamora di un’idea e ci costruisce sopra un film, ma non le permette mai di prende il sopravvento né di mimetizzarsi del tutto con la narrazione.

Nel cinema di Soderbergh ciò che non è (volutamente) rifinito racconta una storia

L’estetica soderberghiana prevede che le linee della bozza**, i contorni dell’esperimento rimangano anche nel quadro finito** e che il ritmo svelto che s’impone nel girare, fotografare e montare i suoi film rendano evidente il suo intervento - sia dove c’è, sia dove ha consapevolmente deciso di lasciare qualcosa a uno stato non rifinito, abbozzato. Sia in Black Bag sia un Presence, ovvero due titoli riusciti e capace di catturare l’attenzione di chi li guarda, il risultato non rifinito del tutto ma solo laddove necessario suggerisce allo spettatore cosa è importante guardare davvero e perché. Per un film tutto girato dalla prospettiva della presenza, dove vediamo a malapena i volti sempre distorti dei quattro protagonisti - i genitori in rotta Rebecca (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan) e i figli adolescenti Tyler (Eddy Maday) e Chloe (Callina Liang) - il punto è anche e soprattutto il carattere di questa presenza muta.

Presence è una ghost story essenziale ma mai fredda: la recensione della prospettiva fantasma di Steven Soderbergh

Ovviamente dietro c’è tutto un lavoro di macchina da presa dato che le macrosequenze devono giocoforza sfiorare i confini del pianosequenza: lo sguardo della cinepresa “fantasma” segue ininterrottamente su e giù per i due piani della casa i protagonisti, sale le scale, gli danza attorno, li spia e talvolta ci interagisce. È una sfida tecnica notevole per chi la cinepresa la muove e per chi si deve muovere sul set come se non la vedesse, appunto. L’aspetto più riuscito di Presence è che con grande naturalezza e quasi senza forzatura stilistiche, Soderbergh riesce a caratterizzare lo sguardo muto del fantasma, di cui percepiamo istintivamente la confusione, la rabbia, ma soprattutto la gentilezza e l’apprensione rispetto alla famiglia protagonista. Il tutto attraverso i movimenti della cinepresa, che diventano linguaggio, ovvero quello che fa il cinema implicitamente, esplicitato.

In Presence a essere sinistri sono spesso gli esseri umani

Ho volutamente detto pochissimo in merito alla trama in sé, anche se come spesso capita in queste storie di fantasmi viste dalla prospettiva soprannaturale il punto è sempre quello umano: Presence non fa eccezione, raccontandoci una storia in cui a darci più preoccupazione e angoscia sono i vivi più che i morti. Se il film è riuscito è anche perché lo sceneggiatore David Koepp consegna a Soderbergh una sceneggiatura snella e essenziale quanto l’approccio tecnico del film, che ritrae con dialoghi naturalistici e momenti quotidiani apparentemente banali una storia di quieta violenza, inflitta in molti modi (talvolta davvero subdoli) da un umano all’altro, spesso in relazioni che presuppongono legami d’amore.

Presence è una ghost story essenziale ma mai fredda: la recensione della prospettiva fantasma di Steven Soderbergh

Come in Black Bag Soderbergh e Koepp sembra essere particolarmente interessati alle bugie che diventano necessarie per tenere in piedi la verità affettiva di un rapporto amoroso o genitoriale. Non sono tutte persone gradevoli e amorevoli quelle che popolano la casa di Presence, anzi: la famiglia protagonista è spaccata in due da un modo diametralmente opposto di concepire l’amore. Per alcuni significa occultare, silenziare, proteggere ferocemente lo status quo tenendo l’amato all’oscuro di ciò che succede. Per altri è la quieta sofferenza di chi vorrebbe affrontare questa menzogna e parlare del dolore vero, dei comportamenti più ripugnanti, cercando di muoversi in una nuova direzione. La storia di Presence ha un singolo colpo di scena, molto semplice, non del tutto imprevedibile. Il punto non è terrorizzare né sorprendere nel modo in cui siamo abituati, ma mostrarci come passare da chi occulta a chi mostra il proprio sentimento è ciò che fa davvero paura ed essere oggetto di quel tipo di d’amore talvolta può essere davvero straziante.

Presence

Durata: 85'

Nazione: Stati Uniti

7

Voto

Redazione

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Presence

Presence non è un horror in senso lato, è più una ghost story d'atmosfera in cui Koepp alla scrittura e Soderbergh alla regia riescono a non diventare vittime dell'esperimento che mettono in piedi: quello di guardare la storia dalla prospettiva del fantasma e rendere sinistri e strazianti gli umani che la popolano e che interagiscono con la presenza. Volutamente contenuto, claustrofobico e talvolta non rifinito, Presence non rimane un vuoto esercizio di stile ma un'agile storia essenziale e riuscita proprio perché l'enorme esperienza di Soderbergh dietro la cinepresa e la sua energia creativa e iperattiva riescono a esplicitare l'esperimento in corso senza perdersi per strada la componente umana della storia, che con in Black Bag esplora i sentimenti di affezione e amore a partire dalle loro manifestazioni più bugiarde, sinistre e sgradevoli. Certo alcuni lo troveranno forse un po' noioso, forse un po' vuoto, ma Presence non vuole stupire né fare nulla in più di ciò che si è prefissato: è in questa sua essenzialità imposta ma raramente scarna, nel suo dire quel che ha da dire in maniera concisa, precisa ma mai fredda che risiede la sua forza.

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