L’abbaglio dice addio alla stranezza, optando per il convenzionale: la recensione del film
Dopo il successo di La Stranezza, Roberto Andò prova a replicarne la formula con lo stesso cast ma, nonostante la Sicilia e Garibaldi, si torna nel territorio del cinema più convenzionale.

Uno dei grandi misteri del cinema italiano è perché nessuno faccia un film o una serie dedicata ai personaggi del Risorgimento. Non un prodotto con quell’approccio polveroso da fiction che poi viene mostrata dai professori a corto d’idee agli alunni in classe, no. Una pellicola che tiri fuori il le contraddizioni, i limiti, persino il marcio sui protagonisti di tante statue, targhe e vie d’Italia, mostrandoli nelle loro debolezze, nella loro umanità. Facendoci assaggiare quando la Storia, anche in quell’occasione, è un susseguirsi d’eventi che a posteriori sembrano incontrovertibili ma che nel momento apparivano incerti. Oppure un film che punti finalmente a rendere Garibaldi, Cavour e soci personaggi dall’innegabile coolness, vero o presunta. Non dovrebbe essere così difficile, quando parti da uno il cui soprannome è “l’eroe dei due mondi”.
Invece L’abbaglio è l’ennesimo dei pochi, pochissimi film che provano a fare quest’operazione che finisce nel territorio più scolastico e polveroso possibile. Un finale scoraggiante, specie considerando che il cast puntava a bissare la fortunata stranezza del film precedente del regista. Toni Servillo, Ficarra e Picone sono i tre protagonisti siciliani di uno sbarco dei Mille che si fa strada nell’isola sicula tra retorica e realpolitik, nel prevedibile intreccio tra finzione, personaggi immaginari e realtà storica.
La Sicilia, grande incompresa dalla Storia
Maggio 1861. Garibaldi è una figura già leggendaria, capace di radunare attorno a sé un nugolo di giovani idealisti. Sul campo però, sull’insidiosa via verso Palermo, le camicie rosse hanno bisogno di una guida pragmatica e che conosca il territorio. Ex dell’esercito borbonico, il colonnello Vincenzo Giordano Orsini (Toni Servillo) ha sposato la causa della libertà in varie nazioni, fino a tornare in patria. Non in Italia, ancora tutta da fare nella teoria e nella pratica, ma nella sua Sicilia. Pragmatico, saggio e capace di vedere l’ipocrisia altrui, Orsini ha il compito di tenere insieme idealisti del nord e personaggi meno limpidi che s’infiltrano nelle file rivoluzionarie, alla ricerca di altro. Tra questi figurano due siciliani che ammette tra le fila della spedizione, pur intuendone da subito il doppiogiochismo.
Allo sbarco, alle prime timide palle di cannone**, Domenico Tricò (Salvatore Ficarra) e Rosario Spitale (Valentino Picone) se la danno a gambe,** venendo stralciati da un’irritato Orsini dal registro dei Mille. Niente disertori nella versione ufficiale. I due personaggi immaginari dunque sarebbero stati stralciati dalla storia ufficiale. Il film ne segue il lento ritorno alla terra siciliana, luogo di delizie conventuali e asprezze proletarie, dove il potere clericale e quello borghese sono già alleati per sfruttare chi non ha voce e spera di trovarne uno proprio grazie alle camicie rosse.
Più che un inno all’Italia da fare, L’abbaglio è un racconto dell’essenza siciliana, tanto incompresa da chi l’Italia l’ha fatta. C’è una scena in cui Orsini, piccato, dice al suo giovane aiutante in campo di origini venete che è un buon uomo ma della Sicilia non ha capito proprio nulla. Il passaggio è piazzato dopo un incontro con “gentiluomini cordialissimi” inviati dai poteri forti locali già in odore di mafia, accordatisi con gli alti capi della spedizione, in modo da garantire la protezione alle colonne di Garibaldi. Protezione a buon rendere, s’intende.
L’abbaglio del titolo dunque, come esplicita l’amaro finale della pellicola, è il fraintendimento rispetto alla nobile causa italiana. L’Italia si è fatta a suon di compromessi e promesse rimangiate, ricorda Roberto Andò nella sua pellicola, molte delle quali hanno concorso a creare quella situazione di profondo svantaggio che ha irrimediabilmente segnato la difficoltà dei territori siciliani a godere dei benefici della nazione unita, patendo invece gli svantaggi. Il film per esempio connette chiaramente l’unificazione sotto i Savoia e la capitale lontana, lontana, lontanissima al sorgere del nuovo nemico che l’isola dovrà affrontare: il giogo della mafia. C’è perfino spazio alla solita, logora battutina su Milano. Si sarebbe tentati di citare Il Gattopardo, non fosse che quella citazione è altrettanto logora e abusatissima.
L’abbaglio dunque è la percezione illusoria che l’unificazione nazionale possa tirar fuori il meglio dalla neonata nazione, portando giustizia e ordine anche per quanti da secoli subiscono soprusi. Invece il carattere italiano raccontato da Andò - nelle classi alte come in quelle basse - alterna slanci autentici di virtù a quotidiane derive da faccendieri e bari. Le virtù ogni tanto brillano all’ombra dei vizi, ma solo per chi sta davvero a guardare.
L’abbaglio si ostina a non vedere il suo stesso lieto fine
Scritto dallo stesso regista con il supporto di Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, L’abbaglio è un amara visione dell’unificazione nazionale portata avanti da chi sognava di cambiare per sempre le cose e invece ha fondato una nazione sulle stesse logiche distorte di ciò che c’era prima. Le carte e il vizio del gioco, per esempio, fanno da filo conduttore e unificante più degli ideali garibaldini. Gioca Rosario, che in uno dei passaggi più malinconici del film dice delle carte “sono la mia unica famiglia”, giocano le suore che hanno imparato dai fratelli e dai padri che probabilmente le hanno piazzate in convento. Giocano i ricchi borghesi, richiamati nelle bische clandestine a suon di parole d’ordine garibaldine.
In teoria L’abbaglio potrebbe essere quel film smitizzante di cui parlavo in apertura di recensione, ma in pratica non lo è, appoggiato com’è al solito dualismo dei poveretti pieni di dignità e d’umanità e dei ricchi pavidi e codardi. In teoria Domenico e Rosario dovrebbero essere l’eccezione, dovrebbero dare alla pellicola quella verve che lo spinga fuori dal didascalico, mentre Toni Servillo poggia con la sua potenza teatrale tante battute benissimo scritte ma assai pompose. Invece, proprio attraverso il personaggio di Orsini, Andò non li assolve, li riscrive nella storia da cui erano stati stralciati sì, ma nel registro dei cattivi.
Cosa rimane dunque? Una Sicilia bedda ma già condannata, un’impresa che pare portata avanti dai soli sforzi siciliani mentre Garibaldi, pur vivo e umano, sembra già il busto commemorativo di sé stesso. I personaggi femminili, in teoria belli e arditi, sono poco più di un contorno a una storia che anche nel finale avrebbe quel colpo di mano perfetto tra le carte da giocarsi (un triangolo che risolva tutte le solitudini raccontate nel film), invece il film proprio non ce la fa a non giudicare il suo personaggi, non riesce a vedere nel suo stesso finale una chiusura lieta. A vuole intuire come, anche tra i più bari e bugiardi, gli ideali risorgimentali in qualche modo hanno attecchito. Perché alla fine, contro ogni pronostico, in modo zoppicante, l’Italia s’è fatta.
Durata: 131'
Nazione: Italia
Voto
Redazione

L'abbaglio
Bari, bugiardi, ma mai davvero cinici e capaci di metterci il cuore e l’orgoglio se necessario, anche se davvero all’ultimo minuto. Forse a prendere l’abbaglio del titolo è stato Roberto Andò, che ha tra le mani una brillante commedia nera su come i vizi degli italiani e i limiti dei siciliani in fondo in fondo sono anche le loro migliori virtù. Invece sceglie una via didattico-moraleggiante che rende il suo film una via di mezzo poco soddisfacente: non è tanto cinico da affondare il pugnale fino in fondo, ma non abbraccia nemmeno la natura dei suoi protagonisti, perché rimane diffidente e sfiduciato come il suo Orsini. Un peccato, dato che spesso la Storia Vera (qui talvolta modificata inspiegabilmente a scopi ancor meno comprensibili, vedi il destino del 11enne garibaldino ben diverso rispetto a quanto raccontato nel film) sa perdonare di più di chi la racconta.