Umanizzazione del villain: un'analisi di James Sunderland

Il protagonista di Silent Hill 2 è uno dei rari, non caricaturali esempi in cui vestiamo i panni di un personaggio riprovevole: eppure, nonostante tutto, tremendamente umano

Umanizzazione del villain unanalisi di James Sunderland

Antagonista e protagonista Vs eroe e malvagio

Una tendenza piuttosto comune, nei media, è la netta suddivisione dei ruoli e della caratura morale dei personaggi che li vestono: l'antagonista ha uno scopo malvagio, inconciliabile con la visione dello spettatore ed ermetico al punto tale da non lasciare spazio per altro dalla volontà di vederlo fallire; il protagonista, al contrario, incarna tutto ciò che di positivo potrebbe esserci ed è la figura che trova nel pubblico una generale approvazione persino quando non dovrebbe. Si è venuto a creare un dualismo molto preciso: antagonista/malvagio, protagonista/eroe.

Ci avete mai fatto caso? Quando si parla di protagonista, automaticamente si pensa all'eroe, al personaggio giusto e probo, arrivando a rendere i due termini sinonimi quando non lo sono affatto. Un eroe non può essere malvagio (anche qui però ci sarebbe da disquisire perché è una questione di prospettiva) ma per quale motivo un protagonista non dovrebbe esserlo? Da dizionario, per protagonista si intende il personaggio principale di un’opera teatrale, lirica, cinematografica, narrativa o figurativa; da nessuna parte è scritto che debba essere positivo, tantomeno un eroe. Al protagonista si contrappone l'antagonista, ovvero quel personaggio in conflitto con il protagonista: di nuovo, non viene specificato che debba essere malvagio o in qualche modo respingente, semplicemente si tratta dell'ostacolo principale del protagonista lungo il suo percorso. Se questo percorso mirasse, per esempio, all'attuazione di un massacro? Il protagonista smetterebbe di essere tale solo perché il suo obiettivo non collima con la nostra etica o morale? Light Yagami (Death Note) è un personaggio deprecabile, del quale si possono ammirare l'intelligenza, la determinazione e persino gli intenti, fino a un certo punto, laddove invece se ne disprezzano i metodi; ciò però non lo rende meno protagonista, in contrasto con L che pur essendo dalla parte giusta della storia è a conti fatti un antagonista e, per Light, un ostacolo.

Umanizzazione del villain: un'analisi di James Sunderland

Film e serie TV soprattutto statunitensi scivolano spesso in questa spasmodica ricerca del ruolo netto, del cattivo verso cui puntare il dito e che può essere soltanto quello: un fantoccio deumanizzato verso il quale si deve provare disprezzo, mai un protagonista e soprattutto mai una figura che può suscitare empatia. Ci sono però le eccezioni, va detto, sebbene fagocitate in un mare di blockbuster e prodotti dal consumo vorace e distratto.

Nei videogiochi invece, e qui arriviamo infine al punto principale dell'articolo dopo una lunga premessa, siamo ancora al punto in cui essere un protagonista significa essere buono, oppure avere un percorso di redenzione. Abbiamo antieroi come Kratos (God of War), che compiono azioni ritenute moralmente accettabili sebbene le loro ragioni spesso non lo siano ma che, alla fine, mettono le cose a posto; a modo loro, certo, però lo fanno. Sono quell'eccezione alla regola che si accetta di guardare, o impersonare nel caso dei videogiochi, perché in parte soddisfano quel lato più oscuro e inconfessabile proprio di ognuno di noi. Nella maggior parte dei casi, almeno per quanto riguarda i titoli più blasonati o comunque rivolti a un pubblico di massa, al giocatore si chiede di impersonare il protagonista/eroe: i fattori sono molteplici, e non è questo l'articolo per impegnarsi in una disamina, ma tra i tanti non si può escludere una mancanza dell'utente medio quando si tratta di distinguere il sé dal suo avatar. Parafrasando il "cogito ergo sum" si potrebbe dire "ludo ergo sum" (gioco dunque sono), per indicare coloro secondo cui compiere un'azione pensata da altri per noi nel mondo di gioco significa avallare quella stessa azione - riconoscersi in essa e dunque averne terrore perché ci mette in discussione, ci "marchia" come persone deprecabili. Una sorta di lettera scarlatta virtuale di cui però siamo a conoscenza soltanto noi.

Se invece l'utente viene rassicurato fin da subito che chi sta impersonando è "buono" (cosa significa, poi?), eccolo allora convincersi - di nuovo - di essere nel giusto a prescindere da cosa gli verrà chiesto di fare. I casi in cui questa certezza viene sovvertita all'ultimo momento sono rarissimi ma esistono: James Sunderland, il protagonista di Silent Hill 2, ne è forse l'esempio più lampante. Perché nemmeno sospettiamo che stiamo impersonando non un antieroe bensì il "villain": uno di quelli che ci inganna fino alla fine. Tuttavia, viene al contempo umanizzato tanto da spingerci a capirlo. Che, altro punto controverso, non vuol dire giustificarlo.

In my restless dreams...

Silent Hill 2 è un horror psicologico in terza persona pubblicato da Konami nel 2001 per PlayStation 2. Nei panni del protagonista James Sunderland, ci ritroveremo intrappolati nella cità di Silent Hill mentre cerchiamo tracce di nostra moglie, defunta diverso tempo prima. Il tutto mentre siamo preda di orrori inimmaginabili.

Umanizzazione del villain: un'analisi di James Sunderland

Prima di introdurre Silent Hill 2 nel momento in cui la storia viene consegnata a noi giocatori, facciamo un riassunto delle vicende che ci conducono fino a lì. Gli eventi precedenti al gioco dipingono James Sunderland come commesso di un negozio di alimentari per una piccola azienda (già qui, per il suo tempo, ci stacchiamo dall'archetipo del protagonista affascinante e carismatico): aveva una moglie, Mary, incontrata durante la festa di un amico comune e del quale si innamorò subito, ricambiato. I due si sposarono poco dopo e con il tempo la loro relazione trovò la sua quieta stabilità. In un periodo non precisato, James e Mary andarono in vacanza proprio a Silent Hill dopo averne letto su una brochure e alloggiarono al Lakeview Hotel, dove lui registrò un video. Riprese la moglie parlare della città, definendola un luogo sacro, e chiedendo a James di prometterle che in futuro l'avrebbe riportata lì. Il video si interrompe prima di farci conoscere la sua risposta e la cassetta fu dimenticata all'hotel.

Tre anni prima degli eventi di Silent Hill 2, a Mary venne diagnosticata una malattia sconosciuta ma mortale che l'avrebbe lentamente deteriorata fisicamente e mentalmente. Nessuna terapia possibile e solo tre anni di vita, stando ai medici. James, furioso e incredulo, iniziò a cercare risposte per conto suo, senza successo, e con il tempo le sue visite a Mary divennero meno frequenti a causa della di lei instabilità emotiva. Solo e triste, James prova a cercare conforto nell'alcol e inizia, inoltre, a sviluppare frustrazione sessuale alla quale tuttavia non dà sfogo in virtù del suo matrimonio. Sebbene Mary fosse diventata gradualmente un peso per lui, tanto da spingerlo a risentirsi nei suoi confronti, James era comunque devastato di fronte a una situazione sulla quale non aveva alcun controllo: vedere la moglie spegnersi giorno dopo giorno lo lasciava in un lutto costante. Mary infine muore e James, apparentemente pochi giorni più tardi, raggiunge Silent Hill dopo aver ricevuto una lettera proprio da lei in cui gli chiede di tornare in città. Qui la palla passa a noi.

Tutte queste informazioni non vengono rivelate subito al giocatore, che invece le scopre a mano a mano mentre procede lungo le nebbiose strade di Silent Hill. Voi che state leggendo, e magari non avete giocato Silent Hill 2, partite dunque più avvantaggiati di chiunque nel lontano 2001 abbia preso in mano il gioco. Il personaggio di James, i suoi traumi e i tratti della sua personalità, sono mostrati un pezzo alla volta, spesso mai in maniera diretta (questo perché i mostri della cittadina sono una rappresentazione degli angoli più bui della sua psiche) per costruire quello che a conti fatti è un thriller/horror. Siamo lentamente spinti a empatizzare con lui, a fare in un certo senso nostro il suo vissuto perché è diventato il nostro avatar: proviamo una gamma di emozioni a volte anche contrastanti nei suoi confronti, perché la sua figura resta comunque sempre piuttosto elusiva, ma è verso la conclusione del gioco che tutto viene improvvisamente capovolto. Che il segreto viene alla luce.

[SPOILER]

Mary è davvero morta ma non a causa della malattia; o quantomeno non è stata la diretta causa. È stata infatti uccisa dallo stesso James, che l'ha soffocata con un cuscino dopo aver raggiunto un limite di sofferenza interiore non più tollerabile. Il gioco dunque ci colpisce all'improvviso, ribaltando tutte le nostre convinzioni: abbiamo seguito i passi non di un vedovo distrutto dalla perdita ma di un assassino. Abbiamo provato pena, compatimento, dolore per un uomo che ha ucciso con le sue stesse mani la moglie malata, e siamo stati messi di fronte alla verità solo alla fine. Questo cambia la posizione di James, che resta un protagonista ma non è più uno sfortunato antieroe, bensì un villain: eppure non invalida, o almeno non dovrebbe, quelle che sono state le nostre emozioni nei suoi riguardi. Possiamo arrivare a disprezzare la sua scelta ultima ma possiamo davvero permetterci di giudicarlo? O, ancora peggio, ritrattare la nostra empatia verso di lui dopo aver scoperto cosa si nascondeva dietro la sua maschera?

Umanizzazione del villain: un'analisi di James Sunderland

James Sunderland: umanizzazione di un villain

Possiamo definire James in tanti modi: patetico, debole, tormentato, subdolo, banale, folle, egoista e nessuno di questi sarebbe sbagliato. In una parola, però? Umano. James è una vittima-carnefice, un uomo che trascina il giocatore nel suo personale inferno, sempre sul confine tra la negazione e la verità, troppo rotto per compiere quel passo che lo porterebbe a riconoscere il proprio crimine, prigioniero dei suoi demoni, disperato al punto da renderci suoi involontari complici. Nasconde a noi, ma a se stesso prima di tutto, cosa sia accaduto finché il suo tormento interiore non esplode, obbligandolo ad affrontarsi: non esiste un vero e proprio villain in Silent Hill 2 perché è James a esserlo; lui e tutte le aberrazioni che incontriamo lungo la città, poiché altro non sono che una manifestazione della sua psiche. I demoni che l'hanno accompagnato negli anni della malattia di Mary sono diventati reali, toccando ogni nervo scoperto fino al memorabile e inquietante Pyramid Head. Nella sua feroce invulnerabilità è il pinnacolo dei tormenti interiori di James, quel PTSD che lo insegue costantemente ricordandogli il suo crimine (non a caso Maria, una sorta di alter ego di Mary, viene uccisa più volte proprio da Pyramid Head). Inarrestabile e indistruttibile, diventa vulnerabile nel momento in cui James cede e affronta le proprie paure: non è un caso che, dopo uno scontro corpo a corpo in cui di fatto non uccidiamo i due Pyramid Head che si sono manifestati per l'ultima volta, siano loro a suicidarsi come rappresentazione dell'espiazione di James. Nella sua banalità, anche estetica, e nel suo essere un personaggio fondamentalmente noioso se messo a confronto con l'archetipo del protagonista-eroe, James è uno dei personaggi meglio riusciti non solo perché ci inganna dall'inizio alla fine ma perché ci mette davanti al fatto compiuto: è un villain. E noi, suoi complici.

Sovverte quell'equilibrio che vede il malvagio essere sconfitto dal buono, ovvero dal giocatore, fa a pezzi la retorica dell'eroe per restituirci un personaggio deplorevole eppure umanissimo, nel quale specchiarci. È come se in un certo senso volesse mettere il giocatore alla prova, facendo scoppiare la sua bolla sicura con una di quelle rivelazioni da cui non si scappa: ci spinge a essere onesti con noi stessi, a riconoscere che sì, abbiamo simpatizzato per una persona deprecabile e non è una cosa di cui vergognarsi. Non se il personaggio è scritto talmente bene da poter essere, come notavo prima, compreso - giustificato, però, quello mai. Perché giustificare vuol dire svalutare tutto il percorso e il vissuto che hanno condotto fino al punto di non ritorno. Giustificare implica ricondurre tutto a una moralità che non potrebbe essere più volubile. Potremmo davvero dire che non ci saremmo comportati come lui, immaginando di aver vissuto il suo trauma? Che non avremmo compiuto anche soltanto parte delle sue scelte? Forse ma, per riuscirci, dobbiamo anzitutto comprendere il suo personaggio e poi, solo poi, prendere la nostra decisione: c'è addirittura la possibilità che non sapremmo prendere una posizione netta.

James è probabilmente la migliore rappresentazione di Silent Hill: sommesso, a tratti persino noioso ma, in particolare, marcio fino al midollo. Esplorare sempre più la città significa affondare nella sua psiche, che si aggrava (marcisce, per l'appunto) a mano a mano che ci addentriamo lungo le sue vie e i suoi edifici. È anche una terribile, bellissima fregatura, un protagonista che tuttavia è anche un villain: un personaggio che, se non fosse stato umanizzato in quel modo - se noi avessimo saputo fin dal principio essere negativo - non avrebbe avuto lo stesso impatto, la stessa importanza nel farci capire che sì, una storia può anche essere vissuta da un punto di vista che non sia l'archetipo dell'eroe o dell'antieroe e che può essere ugualmente apprezzata. James è, insomma, tutti noi: ci basta solo ammetterlo, guardando oltre senza fermarci alle sue (deprecabili) azioni.

Umanizzazione del villain: un'analisi di James Sunderland