La dialettica della separazione: Low Roar in Death Stranding

La storia di Ryan Karazija e Low Roar, dalla musica indie islandese al successo mondiale grazie a Death Stranding di Hideo Kojima. Un ricordo personale

La dialettica della separazione: Low Roar in Death Stranding

A Milano fa sempre freddissimo.

Questa è la bugia che continuo a raccontarmi per tentare di ancorarla ad un ruolo ben preciso e amovibile nella mia mente; quel posto geograficamente non così lontano dalla mia Venezia, ma ben distinto in paesaggi, cultura e abitudini. Il posto in cui andare per scendere a patti con i propri ideali, e dolcemente infilarsi tra quegli ingranaggi spietati che, dietro a muri in cemento e vetrate traslucide, muovono tutto ciò che ci circonda. 

A detta loro.

Eppure dopo la replica giornaliera della consueta recita ci si ritrova sempre allo stesso traguardo, seduti sul letto di un business hotel che potrebbe benissimo essere all’altro capo del mondo, a contare i sorrisi e le strette di mano ricevute nelle ultime 12 ore. Lo scioglimento di “connessioni umane” tanto fugaci da trascendere persino il significato dell’aggettivo che le accompagna.

È lì che si comincia a intuire la vera natura della distanza: non come spazio da colmare, ma come condizione costante da abitare. Una presenza senza contatto, un esercizio quotidiano di gesti svuotati.

Ci si muove tanto perchè è meglio non restare fermi.

Ci si muove per avvicinarsi il più possibile agli altri.

A Milano fa sempre freddissimo, e il 10 dicembre 2019 si annusa nell’aria quell’inconfondibile odore premonitore delle grandi nevicate. La temperatura lo permetterebbe, ma le imminenti chiusure natalizie sembrano quasi aver congiurato contro il maltempo. La città è presa d’assedio da ogni archetipo umano: turisti, shopper occasionali e volti grigi che, puntualmente in quei periodi, si trasformano da agenti di commercio a spacciatori di panettoni e strenne imbonitrici. Il futuro prossimo che si prospetta davanti a tutti è quello della chiusura, del cambiamento, ma certamente non quello che, da lì a poco, avrebbe stravolto definitivamente la nostra vita. Il giorno di Capodanno, solo dodici giorni dopo, il governo cinese annuncerà ufficialmente di aver accertato diversi casi di una insolita polmonite: molto aggressiva nella sintomatologia ed estremamente rapida nella diffusione tra esseri umani. Nessuno, quella sera, poteva saperlo. Qualcosa nell’aria, forse l’eccessiva calma, forse il modo in cui la città sembrava recitare se stessa, suggeriva che certi equilibri erano sul punto di spezzarsi.

La dialettica della separazione: Low Roar in Death Stranding

Ma Covid-19, varianti e lockdown sono ancora lontani; è una serata come tante, pronta a svanire di lì a poco nel caos controllato del capoluogo lombardo. Le strade del centro iniziano a svuotarsi, aggrappate sempre più a una nebbia umida. Mentre esco dall’ascensore dell’albergo, non posso fare a meno di notare la secchiata di grigio che ricopre il mondo appena oltre le porte scorrevoli, interrotto solo dalle evanescenti aureole dei lampioni. Pare che ogni cosa stia trattenendo il respiro. I tram cigolano ormai svogliati, i passanti non sono che ombre concentrate sulle proprie micro-destinazioni. Sembrano sfuggire alle luci cittadine, come impauriti. L’impressione è che tutto stia per accadere e, allo stesso tempo, che nulla possa davvero succedere mai. Cammino in automatico, sapendo benissimo che non sarei uscito da quella notte con qualcosa di nuovo, eppure ci andavo proprio per questo.

A due isolati di distanza ci aspetta il Germi, un minuscolo locale ben nascosto in zona Darsena; poco più grande di un salottino, un laboratorio sperimentale nato dalla visione di Manuel Agnelli e Rodrigo D’Erasmo, che negli anni ha ospitato il fior fiore della scena alternativa. Verdena, Joan as Police Woman, James Walsh degli Starsailor: nomi che probabilmente diranno poco al pubblico mainstream, ma che, per chi vive di sottotesti emotivi, per chi si ostina a leggere nei dettagli delle linee melodiche il ritratto di una generazione ancora priva di un linguaggio definitivo, contano eccome. Suoni che si portano dietro città intere, scelte sbagliate, ipocrisia riflessiva, e quel bisogno irrisolto di essere visti anche solo per il tempo di una canzone. Nell’epoca più buia per i mercati indipendenti di ogni stampo, in cui di “indie” resta poco o nulla, spazi come il Germi non vogliono fermare la decadenza, ma permettono di aprire bolle emotive con realtà apparentemente tanto lontane.

Stasera, su quel tappeto, si esibirà Low Roar. Da solo, come alle origini, ben prima che il progetto solista di Ryan Karazija diventasse un trio da milioni di ascolti.

Ryan nasce e cresce in California, dove suona per anni in diverse band. Dopo lo scioglimento degli Audrye Sessions (il suo gruppo più importante fino ad allora) si sposa con una donna islandese e la raggiunge nel suo paese natale. Nella solitudine, tra i paesaggi rarefatti di Reykjavík e i nuovi muri linguistici e culturali, nasce Low Roar. Fino a questo momento: quattro dischi in valigia, uno più bello dell’altro, in cui gli algidi sintetizzatori si fondono con le più tipiche aperture folk nordeuropee e scandinave. I suoi brani sembrano costruiti per evaporare, più che per esplodere: lenti accumuli, strutture circolari, micro-variazioni timbriche che sfiancano il tempo e rallentano il battito. Il suo lavoro è notevole: lo dice la critica più e meno illustre, ma soprattutto lo dice anche un manipolo di fan, me incluso, a cui è capitato per puro caso in uno dei tanti cestoni algoritmici. Nei paesaggi timbrici di Ryan ogni centimetro di spazio tra gli strumenti è lasciato coscientemente libero di esprimersi. È quasi un gesto di rispetto: come a voler dare dignità a tutti i pezzi di un puzzle totalmente bianco.

Una carriera finora dignitosissima, fondata su dischi stampati su cartoncino, venduti su Bandcamp e spediti uno ad uno. Fino a quel punto, Low Roar era rimasto un nome sotterraneo, custodito da pochi, ascoltato nei momenti di stallo, nei viaggi da pendolare e nei ritorni silenziosi a casa.

Poi, all’improvviso, arriva Kojima

I trailer di Death Stranding, primo attesissimo gioco indipendente dopo il sanguinoso divorzio da Konami, iniziano a circolare come visioni, diventano il caso virale che tutti si aspettavano. Brevi video in cui il protagonista cammina in silenzio, attraversa crinali e deserti rocciosi, e in sottofondo c’è I’ll Keep Coming. È la prima volta che il mondo dei grossi numeri si accorge davvero della musica di Ryan, ed è come se le sue canzoni, fino ad allora intime, appartate, venissero catapultate in una dimensione radicalmente espansa. Senza mai perdere un briciolo di fragilità.

Anche al Germi, nonostante il gioco sia uscito da appena un mese, l’atmosfera resta intima. Siamo in pochissimi. C’è chi ha scoperto Ryan grazie al titolo Kojima Production, chi lo segue da prima, ma nessuno è capitato lì per caso, attirato da un nome che suona bene. Lui chiacchiera nel backstage come fosse un passante qualsiasi. Esce a fumare con noi, si infila il cappuccio, scherza sul tempo, ride piano. La fama digitale non ha scalfito per nulla il suo corpo reale.

Quando sale sul tappeto, tutto si zittisce. Nessun visual, nessun light show, solo la sua voce, due chitarre, un pianoforte verticale e un leggerissimo riverbero. Ogni brano danza in bilico tra racconto e preghiera, come se stesse cantando per trattenere qualcosa che si dissolve. Death Stranding viene spesso ricordato per il suo tema centrale: la riconnessione. L’idea di riallacciare legami, costruire ponti, recuperare l’umano quando è solo l’ultimo bagliore a permanere intatto nella nebbia. Ma quello che troppo spesso dimentichiamo è ciò che viene prima, e che Ryan, invece, canta da sempre: la separazione.

L’allontanamento.

Le distanze che non si colmano. 

I silenzi che non si riempiono. È da lì che parte ogni tentativo di riunirsi: dal riconoscere la rottura. 

Roland Barthes ci ricordava che il significato (di parole, eventi, relazioni) non è mai pieno né definitivo, ma nasce proprio nell’assenza. È lì, in quello spazio di incompletezza, che si crea lo slancio verso l’altro, non per ricomporre un’immagine intera, ma per abitare insieme la tensione di ciò che manca. Low Roar non racconta come tornare a casa. Racconta che la casa, forse, non c’è più e si può solo continuare a camminare.  Un puzzle in cui i pezzi restano uniti quasi per obbligo, perché da soli non avrebbero identità. Frammenti fragili, senza immagine implicita.

E probabilmente è per questo motivo che lo chiamo per nome da tutto l’articolo.

Come si fa con gli amici, con chi c’era nei momenti che contano. Ma la verità è che io, con Ryan, ho parlato una volta sola: un paio d’ore fuori da un locale, tra sigarette e battute sul freddo islandese. Non ho foto, né messaggi da rileggere. Solo quella voce, che da quella sera ogni tanto fa capolino tra un pensiero e l’altro.

Ma forse non serve conoscersi davvero, per creare una connessione.

Nota conclusiva: Ryan Karazija ci ha lasciati il 27 ottobre 2022.

Di quel concerto solista al Germi esiste una registrazione completa, caricata interamente su YouTube.

L’autore ha lasciato un commento che, a mio avviso, rappresenta perfettamente chi era Ryan:

Durante le tre ore di buco prima del concerto vero e proprio, parlando con Ryan, Luca (ndr, un amico dello spettatore) gli ha chiesto se avrebbe performato Nobody Loves Me Like You poiché vi è particolarmente legato per motivi personali. La risposta di Ryan è stata un enorme forse, né si né no, anche se nelle altre date non la si è mai sentita. Durante il concerto ha annunciato che avrebbe suonato una traccia che fino a quel momento si era sempre rifiutato di performare, guardando direttamente Luca. Indovinate un po' che cosa ha cantato?



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