Norimberga segna il ritorno a Hollywood di una certa retorica che non ci era troppo mancata
James Vanderbilt riesce nella non facile impresa di giustificare la scelta dell’australiano Russell Crowe nei panni del nazista Hermann Göring in un film che stupisce soprattutto per come riesca a essere godibile.

Era appena cominciato il nuovo secolo quando Hollywood sfornò un film incentrato sugli stessi fatti e con la stessa, mastodontica durata della pellicola che approva a fine 2025 in sala, presentata in queste ore al Festival di Torino. A distanza di un quarto di secolo è interessante capire cosa è rimasto inalterato e cosa invece è cambiato nella sensibilità e nell’attitudine con cui Hollywood cerca di raccontare un momento cruciale della fine della Seconda guerra mondiale, una prima volta chiusasi però senza il mancato senso di catarsi per cui l’intera operazione era stata progettata.
Alec Baldwin era il protagonista di un altro Norimberga: una pellicola sempre incentrata sul processo ai gerarchi nazisti catturati sul finire della guerra, la prima vera messa in atto e in aula del diritto internazionale. All’epoca era Brian Cox a interpretare il secondo di Hitler e più alta carica del terzo Reich Hermann Göring, in una pellicola di tre ore tonde incentrata sul procedimento legale e sul procuratore americano che ne caldeggiò l’istituzione e ne guidò l’accusa.

La trama di Norimberga
Venticinque anni più tardi, Norimberga di James Vanderbilt si ferma a 148 minuti e dà a Michael Shannon il ruolo che era di Alec Baldwin, ma soprattutto assegna a Russell Crowe il sinistro personaggio di Hermann Göring: il capo del Reich, il nazista più influente e carismatico nel gruppo di prigionieri catturati e processati, consegnatosi di sua spontanea volontà alle Forze alleate in Austria, quasi a sfidarle. Se Göring cade e viene condannato con un giusto processo, gli altri gerarchicadranno con lui e il nero capitolo storico del nazismo sarà definitivamente chiuso. È questo il presupposto di un film che solo in teoria vede per protagonista il premio Oscar Rami Malek. Stavolta infatti la pellicola si dedica solo nella seconda metà al processo vero e proprio, concentrandosi sugli studi dello psichiatra Douglas Kelley, un vera figura storica che per mesi conversò con i nazisti prigionieri a Norimberga per accertarsi che fossero sani di mente e potessero sostenere il processo. Da quell’esperienza nacque un libro sulla psicoanalisi del male che ispira il film, scritto dallo stesso regista Vanderbilt: un professionista dalla carriera molto curiosa, arrivato con Norimberga alla sua seconda regia. Come sceneggiatore invece ha scritto davvero di tutto: dal capolavoro di Fincher Zodiac a pellicole di largo consumo come The Amazing Spider-Man, Indipendence Day e alcuni dei più recenti capitolo del franchise di Scream.
È evidente che tra le due Norimberga cinematografiche sono successe molte cose: Mindhunter per esempio, la splendida creatura seriale di David Fincher che, pur incompleta e di scarso successo, è diventata un punto di partenza imprescindibile per le narrazioni psicologiche come questa, in cui un brillante investigatore della mente si confronta col male assoluto e deve resisterne la fascinazione, rimanendone inevitabilmente segnato. Il vero Kelley infatti è una figura tragica, una Cassandra inascoltata che dai colloqui con Göring ricavò un libro in cui metteva in guardia dalla replicabilità di quanto successo in Germania nel Secondo conflitto mondiale. Nella versione del film è un giovanotto sicuro di sé e molto ambizioso che finisce per rimanere più coinvolto del previsto dai suoi dialoghi con Hermann Göring, il suo principale oggetto di studio per tentare di capire cosa renda possibile orrori come quello dell’Olocausto.
Quella di Malek è un’interpretazione abbastanza calcata per un personaggio molto stereotipato che funge da coadiuvante al punto del film e al vero protagonista della pellicola: Russell Crowe nei panni di Hermann Göring. Anche se non è esattamente al centro della scena, Norimberga parla soprattutto di lui, trasformandosi da film processuale a ritratto clinico e umano di una personalità tanto arrogante e narcisista quanto indubbiamente carismatica e magnetica. È questa la chiave di lettura principale del film, che vede i buoni (manco a dirlo, tutti gli americani, salvati in extremis nella loro ingenuità da interventi minimi di comprimari come il penalista anglosassone di Richard E. Grant) riuscire a malapena a tenere testa alla formidabile mente e al notevole eloquio di Hermann Göring. Il punto è l’ormai proverbiale banalità del male, il monito che alle giuste condizioni ogni persona può diventare vettore di livello inusitati di crudeltà. Il film però abbina questa massima con la necessità di poter contare sul persone eccezionali. Così Norimberga si salva dall’accusa di incensare eccessivamente il gerarca nazista che racconta, con la chiave di lettura semplice ed efficace che anche il male assoluto ha bisogno di ingegno, acume e carisma fuori norma.

L'enigma Crowe: perché è lui a interpretare il tedesco Göring?
La costruzione di Norimberga in questo senso è davvero classica: lo psichiatra pian piano conquista la fiducia del suo paziente, ma non si rende conto del legame molto profondo, ai limiti del bromance, che instaura con lui, fino ad averne la vita sconvolta per sempre. Non tanto dalla realizzazione di come nei fatti Hermann Göring sia il mostro che il processo di Norimberga tenta di condannare, ma dalla necessità di tradirne la fiducia per assicurarlo alla giustizia. Il racconto del braccio di ferro tra statunitensi, Halley e il secondo di Hitler procede con tutti i crismi degli adattamenti di altri tempi, dove il punto non è tanto la veridicità quando una certa enfasi rituale, una certa retorica di bene contro il male, pur concedendo a quest’ultimo di essere affascinante.
È un film da studios pensato per il consumo dello spettatore che si accontenta di un’infarinatura generale di quanto accaduto nella realtà, dove le scene più forti sono i filmati d’archivio proiettati al processo e mostrati allo spettatore, ovviamente cadenzati dalle sequenze in cui vediamo i protagonisti reagire sconvolti, piangendo o distogliendo lo sguardo, mentre Göring si mette gli occhiali oscurati e mantiene il mistero circa la sua reazione. Vent’anni fa si costruivano così i film che portavano gli attori agli Oscar: Crowe dimostra di essere figlio di quella scuola, lui che è arrivato a nomination più volte dimostrando di avere l’intensità drammatica per condurre un intero film incentrato sul mistero del suo personaggio.

Norimberga segna la sua prima volta in questo senso nei panni del cattivo, anzi, quasi di un malvagio totemico, ammantato dall’identità di assoluta malvagità del nazismo. Non è semplice giudicare la sua performance, che poi è il perno a cui ruota attorno tutta l’operazione. Da una parte Crowe non li si vedeva da tempo così in forma: pur con un approccio poco naturalistico, calcato e un po’ piacione, il suo Hermann Göring funziona alla grande, veicolando al pubblico sia i limiti del gerarca (il narcisismo, la crudeltà perfettamente celata) sia la sua grande mente di stratega e calcolatore (che corona ovviamente nel mantenere la promessa iniziale di non finire sulla forca, negando la catarsi e la legittimazione di cui chi ha vinto alla guerra è in cerca). Malek in questo senso è il contraltare perfetto, perché ha gli stessi limiti e difetti di Crowe, ma ancora più calcati, facendo dunque apparire il collega neozelandese più misurato. Anzi, nonostante la lunghissima durata il film funziona e intrattiene proprio grazie al classico ma molto godibile duello tra i due.
Goering vs Churchill
Rimane però un quesito di fondo: perché scegliere Russell Crowe, che per questo ruolo ha imparato a parlare tedesco (che nella pellicola alterna all’inglese), quando il parterre d’interpreti teutonici non è certo a corto di attori che possano affrontare il ruolo, parlando da madrelingua il tedesco, l’inglese con un naturale accento teutonico e magari somigliando di più all’originale? La risposta, cinicamente, la sappiamo: il motivo di fondo per cui Norimberga esiste è perché Crowe sperava nel colpaccio, in una nomination all’Oscar, in un rilancio di carriera che molti sì a pellicole ben più scadenti hanno un po’ appannato. Sfortunatamente per lui è un anno particolarmente ricco di performance maschili di livello e la lotta sarà durissima. Come si può biasimare Crowe quando Gary Oldman ha fatto la stessa mossa, con lo stesso scopo, con L’ora più buia, interpretando Churchill? La risposta è presto detta: a parte la caratura attoriale di Oldman (che sta su tutto un altro livello), l’interprete inglese era perfetto per incarnare lo spirito del personaggio in un film che non piegava la verità storica alle sue esigenze di andare all’Oscar, ma che anzi, prendeva decisioni audaci sul fronte artistico in quanto guidato da un cineasta come Joe Wright.

Norimberga invece è tutto carrelli e precisi movimenti di cinepresa, forse un po’ stucchevoli e retorici come certi suoi passaggi di trama, ma comunque efficaci a livello narrativo. James Vanderbilt non è però Joe Wright e il suo merito è quello di rendere comunque interessante un film che sarebbe altrimenti grottesco (e mercenario) per come usa il processo contro l’establishment nazista per fini non propriamente nobili. Non è una mossa così inusuale insomma e, se non con il massimo della grazia, James Vanderbilt la tramuta comunque in un film gradevole da guardare, specie per gli amanti del genere. Rimane comunque un sapore un po’ amaro nel chiedersi perché dunque non scrivere una storia fittizia basata sugli stessi presupposti, per dare a Crowe l’occasione di brillare. La risposta è semplice: al fianco del nome dell’attore, Norimberga usa il richiamo sinistro del nazismo per farsi notare. La banalità della spendibilità del male presso il grande pubblico, verrebbe da dire.
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Nazione: Stati Uniti
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Redazione

Norimberga (2025)
Russell Crowe è l’elemento più affascinante di Norimberga: un ruolo molto bel recitato, istrionico, con un approccio davvero molto vecchia scuola. È così riuscito da farsi quasi perdonare le storture che il film deve applicare per farlo calare nel ruolo di Göring, che viene improvvisamente irriso perché grasso a causa della stazza del suo interprete. Norimberga è un film abbastanza riuscito ma molto convenzionale, la cui priorità non è esattamente raccontare i fatti così come sono davvero avvenuti nel processo al regime nazista. È anche un termometro di una Hollywood tentata dal fare un passo indietro, dal tornare ai tempi in cui un personaggio di questo tipo può farlo un interprete anglosassone. Solo che, rispetto a Brian Cox, a Crowe è toccato imparare un po’ di tedesco. Che un’operazione del genere esista è l’ennesimo segnale che c’è voglia di restaurazione di un certo modo di fare cinema che credevamo ormai tramontato a Hollywood e dintorni.


