It Was Just an Accident, il film iraniano che ha vinto la Palma d’Oro, è davvero un gran film: la recensione
Il regista iraniano Jafar Panahi ha regalato uno dei film più belli del Festival con It Was Just an Accident, intenso film incentrato su quale sia il vero prezzo della vendetta.

It Was Just an Accident si apre in una serata come tante, nell’abitacolo di una macchina, luogo tra i più ricorrenti del cinema di Jafar Panahi. Un padre di famiglia sta tornando a casa insieme alla moglie e alla figlia quando investe un cane randagio. La bimba, sconvolta, mormora che “non è stata la volontà di Dio, sei stato tu a ucciderlo.” Il padre protesta con la frase del titolo: è stato solo un incidente. La frase della bambina non è così fuori luogo, perché siamo in Iran e la volontà di Dio sembra permeare ogni cosa: la giustizia che manda in carcere gli oppositori, una donna incinta che non può essere ammessa in ospedale in assenza del marito, la casualità con cui alcuni cani randagi invadono la carreggiata mentre la macchina prende una curva.
Il padre è un assassino o è stato Dio a mettere sulla sua strada il cagnolino? Padre e figlia hanno entrambi ragione, come spesso succede nel cinema iraniano, popolato da personaggi dalla moralità sfumata, che siano bambini o adulti con posizioni di responsabiltà come quello che sta guidando la macchina, che si rompe poco dopo. Per fortuna c’è un lavoratore nelle vicinanze, che si offre di dargli una mano a riparlarla. Nell’entrare nel suo negozio a recuperare la cassetta degli attrezzi il guidatore viene visto dal vero protagonista del film, che lo riconosce grazie al suono distintivo che fa la sua gamba prostetica quando striscia per terra. Se è Dio ad aver messo quel cane sulla strada, allora forse vuole che affronti la conseguenza delle sue azioni passate.
Quello di Jafar Panahi è un revenge movie che s'interroga sulla moralità dei suoi protagonisti
Comincia così una sorta di revenge movie in salsa iraniana, che “dal semplice incidente” del cane dà la possibilità a cinque persone di decidere della vita e della morte del loro aguzzino. Siamo infatti nell’Iran della Guardie della rivoluzione, degli arresti e delle torture di stato. Niente di violento succede veramente su schermo, è tutto nel passato, se non fosse che questo ha segnato così profondamente i protagonisti del film da far crollare immediatamente la parvenza di normalità che hanno faticosamente costruito una volta liberi dal carcere.
Oltre all’uomo che incontra il torturatore e lo rapisce ci sono una fotografa, una coppia di sposini che l’indomani convolerà a nozze, un manovale irascibile. Non si conoscono tutti tra di loro, anche perché il loro legame comune sta solo nell’esperienza che hanno subito e nell’uomo nella casa di cui devono decidere il destino. L'uomo che però sostiene ci sia stato uno scambio d'identità: la sua ferita alla gamba non è frutto della guerra santa i n Siria, ma di un incidente d'auto, dice. L'incidente potrebbe essere dunque anche la tragica fatalità che lo trasformerà in una vittima innocente, in base a quello che i protagonisti decideranno di fargli.
Panahi esce dalla semi clandestinità con un film solidissimo e a tratti persino comico
Sublime scrittore di dilemmi morali calati nel quotidiano iraniano a ottimo regista d'autore, Jafar Panahi tira fuori dal cappello un film che per altri sarebbe piccolo, ma per la sua filmografia è enorme. Questo perché nell’ultimo decennio la sua produzione è stata girata in sostanziale clandestinità, essendo stato condannato a non girare altre pellicole e a non lasciare il paese per 20 anni. Condanna che ha sfidato con pellicole precedenti come Taxi Teheran, con cui vinse l’Orso d’Oro a Berlino, la cui fattura era praticamente amatoriale.
Panahi però ha saputo attendere, consapevole che la censura del suo paese è imprevedibile. It Was Just an Accident approfitta di un momento di tregua in cui è stato rilasciato dal carcere e gli è stata data possibilità di girare per Teheran senza troppi intoppi. È bello, ma anche un po’ triste, notare come alcune soluzioni registiche degli anni di clandestinità siano percolate nel suo cinema “libero”, come per esempio nella tesissima scena finale, illuminata dalle luci di posizione rossastre del furgoncino su cui il rapitore viene trasportato.
Panahi ancora una volta aderisce a un canone ricorrente del cinema iraniano, con un’impostazione molto teatrale del dramma in corso, che cita apertamente Godot e Brecht. Le vittime infatti vogliono rivalersi sul torturatore, ma vengono radunate dal primo che lo ha individuato, perché nonostante la gamba prostetica, questi non è certo che si tratti della stessa persona che gli ha rovinato per sempre la vita, procurandogli atroci dolori alla schiena. Il gruppo prevedibilmente si spacca, interrogandosi angosciato su fino a dove spingersi con il ricorso alla violenza, su cosa distingua loro dai loro oppressori se i metodi utilizzati sono gli stessi.
Panahi non ha risposta semplici, ma sta nella complessità della domande che si pone la forza di It Was Just an Accident, che è in grado di fare un salto di qualità umano enorme. Panahi è così lucido da trovare il dilemma morale e l’umanità anche nel personaggio che incarna quello stesso regime che da decenni blocca le sue libertà artistiche e umane, interrogandosi su come dovrebbe essere la società capace di superare l’asfissiante presente a Teheran.
Società che ritrae con una notevole dose di humour nero: l'Iran nel film è descritto come un posto dal malaffare imperante, regime o no, dove tutti si aspettano una ricompensa, una mancia, una bustarella per svolgere quello che dovrebbe essere il loro semplice lavoro, magari anche di servizio pubblico. C'è per esempio una scena fulminante in cui le Guardie della rivoluzione chiedono a uno dei protagonisti una mazzetta, quando lui replica di non avere contante, loro estraggono dalla tasca un POS, stabilendo perfino la cifra. In una società ossessionata dal rigore morale, il clientelismo e la banconota che passa di mano in mano sono la quotidianità.
Nonostante la storia possa far presagire un film molto duro e pesante, la maestria con cui il regista trasforma il suo vissuto personale in una grande dramma umano rendono la pellicola una visione immediata, semplice, in cui è facilissimo scivolare dentro e interrogarsi su dove stia la giustizia, o quantomeno mettersi nei panni dei protagonisti. Anche del torturatore, perché nemmeno lui può sfuggire al suo essere umano, che per Panahi significa avere colpe o meriti, fare del mare agli altri ma anche proteggerli e salvarli.
Durata: 101'
Nazione: Iran
Voto
Redazione

It was Just an Accident
Il passaggio più bello di It Was Just an Accident arriva sul finale, quando Panahi s’interroga su cosa succederà dopo la fine del regime iraniano. Quando l’Iran supererà l’attuale governo, quello che giustifica i suoi crimini con l’assunto che se degli innocenti vengono uccisi o feriti andranno in paradiso, quale sarà la motivazione, o la scusa, con cui chi si è ribellato giustificherà le sue azioni? Non solo è un grande quesito, ma dimostra anche la lucidità e la speranza di un uomo e artista che, schiacciato dal governo del suo paese, riesce persino a speculare sul dopo e, con il suo cinema, a tracciare un’ideale strada affinché chi venga dopo non debba espiare colpe simili a quelle dei suoi aguzzini.