Slow Horses non perde la verve, nemmeno nella sua veste più politica: la recensione della quinta stagione
La quinta stagione della serie Apple punta più sulla satira politica che sull’azione, con una storia meno avvincente del passato, ma sempre condotta ottimamente.
Una grande serie la riconosci anche per come gestisce una stagione di transizione, sulla base di un romanzo che fornisce meno rivelazioni e colpi di scena rispetto al precedente. Giunto alla quinta stagione in tre anni, Slow Horses è ormai una solida realtà televisiva, acclamata dalla critica e che, grazie al passaparola, sta pian piano crescendo anche in termini d’ascolti: dopo Severance e Ted Lasso, è la terza hit per popolarità di Apple TV+, almeno sulla base di rozze comparazioni numeriche (le uniche possibili al momento) sulla base dei pochissimi dati Nielsen di pubblico dominio.
La quinta stagione segna, a suo modo, un passaggio importante per l’evoluzione della serie tratta dai romanzi di spionaggio sui generis di Mick Herron, portando su piccolo schermo Le regole di Londra. Rispetto alla precedente stagione, tutta incentrata sul personaggio di River Cartwright e ricolma di colpi di scena, rivelazioni ed eventi senza ritorno (comprese molte morti improvvise dei protagonisti), stavolta il Pantano è alle prese con un caso più alla sua portata, nel senso la posta in gioco è meno personale e vede i protagonisti coinvolti in maniera periferica.
Rispetto alle prime stagioni in cui il ritmo era da subito molto alto, questa quinta ricalca quanto fatto dalla precedente, con una partenza graduale e un progressivo, incalzante crescendo che trova il suo culmine del dittico finale. La prima parte di stagione tra l’altro si sofferma molto sul contraccolpo psicologico di quanto avvenuto alla fine della quarta stagione. Il Pantano è stato rinnovato, ma dalla porta d’ingresso che ancora fatica ad aprirsi all’atmosfera deprimente, tutti i problemi sembrano permanere in un ufficio ancora in corso di ristrutturazione. Lo stesso si può dire per la squadra, anzi, per l’intera Intelligence inglese: con l’eccezione del personaggio di Catherine Standish, Slow Horses ritorno con una nota d’apertura particolarmente amara.
Slow Horses 5 è un caustico commentario sullo scenario politico populista attuale
I brocchi sopravvissuti alla scorsa stagione sono ancora più depressi e sfiduciati e quelli colpiti particolarmente da vicino dagli accadimenti annaspano alla ricerca di un modo per mantenere un controllo precario della situazione. Louisa vuole prendersi un’aspettativa per curare la sua salute mentale, Shirley è sempre più paranoica ed è convinta che qualcuno voglia uccidere Ho, River sta sviluppando una mascolinità aggressiva come risposta alle rivelazioni dolorosissime sull’identità del suo vero padre e su suo nonno, la cui salute mentale è in costante peggioramento. Non va meglio nemmeno per Taverner, esasperata dalla leadership di Whelan, e lo stesso Jackson Lamb, che da tagliente diventa cinico e nichilista. Il Pantano insomma sta riassorbendo il colpo subito nell’ultima stagione e il suo capo vorrebbe tenere i suoi il più lontano possibile dalle scorie di un attacco terroristico che il Park non ha saputo prevenire.
Solo che Shirley ha ragione, qualcuno sta davvero tentando di uccidere Roddy Ho, così i brocchi si ritrovano di nuovo in pericolo, in una stagione che come sempre pian piano riunisce in un unico puzzle tutti gli eventi sparsi per Londra e divisi in varie linee narrative. Il tono rimane per buona parte della serie più duro, amaro (il computo di scorregge di Lamb forse per questo è a quota uno e per giunta silenziosa). La parte comica abbandona in parte lo dark humour per dedicarsi alla satira politica, sviluppando quella capacità di Mick Herron di anticipare i malesseri e le spinte sociali inglesi con anni e libri di anticipo, giusto in tempo per la serie per riadattarle all’attualità.
D’altronde un romanzo che vira sul nichilista e pieno di foschi presagi non potrebbe abbinarsi meglio al tempo presente. Se la prima stagione dello show presentava una versione farsesca di Boris Johnson, qui è evidente che uno dei due candidati alla poltrona di sindaco di Londra è ricalcata sul leader populista Farage: in una stagione senza un vero protagonista, in cui anche Lamb è più defilato del solito, al centro della storia c'è un proprio un caustico commentario sulla macchinazione politica, la corsa dei due candidati e le manipolazioni e le meschinità che comporta, adattate al credo e allo schieramento politico di ciascun candidato.
È un Regno Unito che scricchiola quello raccontato dalla quinta stagione, sedotto da un modo populista, mai sincero e ipercalcolato di raccontare la realtà, sia a destra sia a sinistra (il candidato progressista è interpretato da Nick Mohammed di Ted Lasso). Una dicotomia grottesca nel suo semplicismo che la serie fotografa nei piccoli dettagli d’arredo delle case, nella scelta delle location per fare i discorsi, oltre che ovviamente nei pasticci che i due candidati combinano, perché la regola aurea di Slow Horses è che tutti, dai migliori ai peggiori, fanno cilecca.
Qui fa cilecca anche Lamb e, per un rovesciamento imprevidibile di trama, alla fine persino River azzecca una mossa da agente di prima classe (dopo aver aggiunto un altro paio di disastrose scelte al suo già vasto catalogo). Il tutto su uno sfondo di una strategia di destabilizzazione inventata dall’Inghilterra che gli viene utilizzata contro e non sa arginare, mentre la posta in gioco è alta ma l’infelicità rimane ancora maggiore.
Slow Horses sta cambiando e deve fare attenzione a non farlo in peggio
La produzione rimane il fiore all’occhiello di una serie che fin dalle sue prime sequenze è in grado di stratificare la quantità di informazioni che dà al suo pubblico, scena dopo scena. Slow Horses in questo senso è sin troppo raffinata e si apprezza davvero solo a una seconda visione, quando l'intricatissima trama non ruba buona parte dell'attenzione dello spettatore. Tuttavia la qualità complessiva è un po’ diminuita a causa di una serie di cambiamenti dovuti al ritmo di produzione.
Finora ogni stagione aveva avuto un regista differente, che si è occupato di tutti gli episodi. Dopo una stagione particolarmente elegante e incisiva come quella diretta da Adam Randall, torna dietro la cinepresa Saul Metzstein (che ha già diretto la terza stagione), che ha uno stile di narrazione visiva molto ricco, ma non la stessa eleganza formale.
Si tratta inoltre dell’ultima stagione scritta dallo showrunner Will Smith, che ha già annunciato l’addio alla serie proprio per i ritmi forsennati di lavorazione. In questa serie si percepisce, se non proprio la fatica, la difficoltà di mantenere un approccio organico nei sei episodi che compongono la stagione. L’impressione è che ci sia meno azione del solito, specie nei passaggi centrali. Il risultato sono tre episodi centrali particolarmente brevi (il quinto dura appena 41 minuti, a fronte dell’ora abbondante di durata del season finale). Slow Horses non è certo l’unica serie che fatica a mantenere un’uniformità di durata da episodio a episodio, ma è comunque indicativo del fatto che gestire una narrazione tornata tanto corale, tanto incentrata su due personaggi politici che rappresentano qualcosa più che essere parte integrante della storia, ha comportato alcune difficoltà.
Gary Oldman è sempre eccezionale e il resto del cast gli tiene testa
Ciò che invece rimane sempre eccellente, con punte davvero memorabili, è la maestria con cui il cast dà vita a questi personaggi patetici, ridicoli, eppure così divertenti, così facili da amare. Un plauso va, oltre al solito Jack Lowden (che qui fa tantissimo con pochissimo a disposizione) a Christopher Chung nei panni di Roddy Ho, bravissimo nel rendere esplicito il loop di autosuggestione che mantiene lo smanettone del pantano dentro il suo comodo recinto di convincimenti lontanissimi dalla realtà. Finalmente anche Tom Brooke ha possibilità di esplorare meglio il personaggio di J.K. Coe e le sue interazioni con River/Lowden sono tra i passaggi migliori di stagione, insieme alle patetiche mezze vittorie di James Callis nei panni di Claude Whelan. La sottigliezza con cui la serie pian piano compara Whelan a Ho è testamento della capacità di tirare fuori il meglio dalla visione acuta e spesso spietata di Herron della storia, operando un processo di adattamento profondo e incisivo, che regala alla serie una sua personalità distintiva.
Per Gary Oldman ormai, semplicemente, mancano le parole. La quinta stagione regala all’attore inglese un monologo che, nelle sue mani, diventa una prova recitativa strepitosa, in cui ci viene raccontata una storia lasciandoci nel dubbio di quanto sia funzionale allo sfruttare la situazione a proprio favore, quando sia pura manipolazione psicologica e quanto sia un racconto vero e quindi straziante. Un’ambiguità voluta dalla scrittura e portata su schermo da Oldman capace di tenere incollati allo schermo, di raccontare una storia e al contempo tenere insieme quattro o cinque sottotesti, dialogando silenziosamente con altri personaggi che lo ascoltano nella stessa stanza. Anche stavolta le iterazioni tra Oldman e Reeves nei panni di Catherine e tra Oldman e Lowden testimoniano l’altissimo livello recitativo di una serie che, in questo senso, non sbaglia mai un casting ed è benedetta da un gruppo di protagonisti sempre in palla, sempre efficaci, uno più bravo dell’altro.