Sopravvivere non basta: Killing Floor 3 affonda nella sua comfort zone - Recensione
Tripwire torna con un sequel tecnicamente solido e dall’impatto viscerale, ma privo del coraggio necessario per rinnovare davvero la formula. Bastano headshot e perk per restare al passo con i migliori co-op shooter?

Per molti, i wave shooter sono sempre stati una nicchia funzionale del panorama videoludico. Non un genere di prima fascia, ma una risposta concreta a chi cerca azione immediata, loop serrati e zero distrazioni narrative. È su queste basi che Killing Floor si è costruito un’identità precisa, trasformandosi da mod amatoriale a serie stabile nel tempo, in grado di unire gratificazione istantanea e accessibilità diretta. Nessuna pretesa cinematografica, nessuna ambizione di rivoluzione: solo sopravvivenza, armi e orde da tenere a bada.
Con Killing Floor 3, Tripwire Interactive torna a quella formula, cercando però di proporla a un pubblico che nel frattempo è cambiato. I giochi cooperativi di fascia alta oggi offrono un equilibrio tra dinamiche di squadra, progressione strutturata e costruzione di atmosfera. Titoli come Warhammer 40.000: Darktide, Back 4 Blood o Aliens: Fireteam Elite hanno dimostrato che, anche in un contesto frenetico, si può cercare profondità e varietà. Al contrario, Killing Floor 3 si ancora alle sue origini, puntando tutto su ciò che ha sempre funzionato: ripetizione, ritmo e impatto visivo.
Il problema è che, nel farlo, si espone a una domanda inevitabile: restare fedeli a sé stessi oggi è un valore o un limite? In un mercato dove tutto evolve, affidarsi ancora e soltanto alla forza bruta potrebbe non bastare.
Una trama poco pretenziosa: Killing Floor 3 non cerca la sceneggiatura cinematografica
L’ambientazione di Killing Floor 3 ci proietta nel 2091, in un futuro distopico dove la megacorporazione Horzine ha avviato una produzione di massa di mostri bioingegnerizzati — i famigerati Zed — scatenando un collasso globale. Nei panni di un membro di Nightfall, un’organizzazione ribelle, il giocatore è chiamato a contrastare l’invasione attraverso una campagna a missioni che si sviluppa su più mappe e incarichi operativi. Tuttavia, l’impianto narrativo appare immediatamente sacrificato, ridotto a un flusso di briefing, comunicazioni radio e obiettivi funzionali, ma privi di peso emotivo o drammaturgico.
La trama è considerabile un mero pretesto, quasi un riempitivo fine a se stesso, e Tripwire sembra non aver voluto far niente per nasconderlo. Serve infatti solo a giustificare la progressione tra le mappe e l’introduzione delle sfide stagionali, ma non cerca mai di emergere davvero. Se confrontata con altri titoli cooperativi — come Left 4 Dead o Remnant II — è evidente quanto qui manchi una struttura narrativa capace di dare ritmo, identità e atmosfera all’azione. In quei casi, anche con pochi elementi, i dialoghi dinamici, le micro-narrazioni ambientali e una regia più attenta sono riusciti a trasformare l’azione ripetitiva in un percorso coinvolgente. Killing Floor 3, invece, si limita a presentare incarichi generici come “raccogli dati”, “attiva terminali” o “resisti per X ondate”, che finiscono per sembrare riempitivi e poco più.
Questo approccio ha conseguenze dirette sulla longevità. Quando la progressione si regge esclusivamente sul gameplay e il contesto non offre alcuno stimolo ulteriore, la ripetitività si fa sentire molto prima del previsto. E non basta inserire una storia “a episodi” per cambiare la percezione generale, se ogni missione si risolve sempre allo stesso modo e senza sorprese.
Il risultato è un contesto narrativo che non infastidisce, ma nemmeno valorizza ciò che accade. E in un gioco che fa del ritmo il suo punto di forza, l’assenza di una cornice più solida rischia di appiattire l’esperienza, lasciando il peso interamente sulle spalle delle meccaniche.
Un gameplay intrigante sulle fasi iniziali ma ... dopo un po' noiosi
Per un gioco come Killing Floor 3, il gameplay dovrebbe essere il cuore pulsante dell’intera esperienza – la ragione per cui si continua a tornare, ondata dopo ondata, senza sentire la fatica della ripetizione. E in parte, questo cuore c’è: gli scontri sono brutali, ritmati, soddisfacenti soprattutto quando si imbracciano le armi da fuoco pesanti o si affrontano i nemici corpo a corpo. Tuttavia, è un cuore che batte a singhiozzo.
Le armi più convenzionali – fucili a pompa, mitragliatrici, lanciarazzi – restituiscono una sensazione di impatto intensa e appagante, ma non tutte le classi godono dello stesso trattamento. Chi utilizza SMG o armi a energia, come nel caso dei medici, si ritrova a combattere con strumenti privi di mordente, che tolgono peso all’azione e rallentano il coinvolgimento. In un titolo che vive di tensione e di frenesia, questo squilibrio è evidente.
La classe del Ninja, testata per buona parte della mia prova, si è rivelata la più funzionale – e non solo per la mobilità o per le armi proposte. Il motivo principale è legato alla mia personale esperienza: utilizzando un gamepad e avendo una mira poco precisa, gli scontri a distanza diventavano spesso caotici e frustranti, con morti improvvise causate dalla difficoltà di colpire con costanza. Il Ninja, invece, mette a disposizione armi versatili, potenti e coinvolgenti, come l’arco, i kunai e le doppie katane, capaci di offrire un’alternativa gratificante al gunplay tradizionale. Anche l’uso delle finestre di invulnerabilità durante gli scatti aiuta a compensare le imprecisioni, rendendo la classe ideale per chi gioca con pad o ha bisogno di reazioni rapide.
Ma il vero punto debole del gameplay non è la varietà dell’arsenale, quanto la mancanza di reale cooperazione tra i membri del team. Nonostante si presenti come uno shooter cooperativo, Killing Floor 3 raramente riesce a creare dinamiche di gruppo interessanti: la sinergia tra le specializzazioni è limitata, i potenziamenti passivi favoriscono il gioco in solitaria e, a parte le boss fight, non c’è mai una reale esigenza di coordinarsi. È come se ogni giocatore fosse una scheggia impazzita, letale ma scollegata dagli altri – un errore concettuale che svilisce la struttura stessa del gioco.
A complicare ulteriormente la situazione ci pensano i nemici stessi, gli Zed, che rappresentano l’altro pilastro su cui dovrebbe poggiare l’esperienza. Purtroppo, anche da questo lato il gioco mostra segni di stanchezza creativa: gran parte delle creature proviene direttamente dal secondo capitolo, con un numero complessivo di varianti inferiore rispetto al passato. Le eccezioni sono poche e poco incisive. I moveset dei nemici base come Clot, Cyst o Gorefast sono piuttosto basilari, basati sull’avvicinamento e sul colpo fisico diretto, con rare eccezioni tra le unità più specializzate. Alcuni Zed, come lo Husk, cercano di diversificare gli approcci grazie a nuove abilità – ad esempio l’uso del jetpack per colpire da lontano – ma sono casi isolati che non cambiano davvero il modo in cui affronti le ondate. Alla lunga, l’impressione è di ripetere sempre le stesse routine: mira, colpisci i punti deboli, avanza.
Le boss fight sono forse l’elemento più deludente in assoluto. Nonostante la presenza di tre boss inediti, tutti seguono uno schema troppo simile, con mostri giganti che attaccano frontalmente e saltano addosso al giocatore con forza bruta. Il problema è che questi scontri non valorizzano il gunplay di precisione, anzi: trasformano l’intero sistema di combattimento in una raffica disordinata di proiettili e caos visivo, dove i colpi ben assestati non fanno differenza rispetto al fuoco continuo. Il ritmo si spezza, la tensione cala, e l’adrenalina viene sostituita dalla frustrazione. Anche la gestione delle hitbox e delle animazioni risulta imprecisa, minando la leggibilità dell’azione nei momenti cruciali.
Anche i sistemi di personalizzazione e crafting finiscono per appiattire l’esperienza. Le modifiche alle armi, pur introdotte per aumentare la profondità, si riducono spesso a ritocchi marginali su numeri invisibili: un mirino che migliora la precisione del 4%, un’impugnatura che abbassa il rinculo del 2%, senza mai cambiare davvero il feeling delle armi. Lo stesso vale per la personalizzazione estetica del personaggio, limitata e poco stimolante: non si crea mai un vero legame con l’avatar, e tutto ciò che sblocchi sembra più una formalità che un traguardo.
Killing Floor 3 ha un buon comparto tecnico ma da solo non basta!
Dal punto di vista tecnico, Killing Floor 3 su Xbox Series X si presenta con un impianto visivo solido ma tutt’altro che innovativo. La risoluzione resta stabile, l’illuminazione è discreta e la fluidità si mantiene su 60 FPS quasi costanti anche durante gli scontri più caotici, ma questo non basta a mascherare una generale sensazione di obsolescenza visiva. Le texture sono altalenanti, con ambienti che oscillano tra il fotorealismo sporco e il piattume di vecchia generazione. Il colpo d’occhio complessivo è spesso affaticato da effetti particellari invadenti, esplosioni ridondanti e fumo che non aggiungono pathos ma sottraggono leggibilità all’azione.
Anche il design artistico mostra segni di stanchezza. Le mappe sono varie in superficie, ma condividono una struttura lineare e prevedibile, con percorsi che raramente spingono all’esplorazione o a un minimo di verticalità strategica. Gli interni, in particolare, soffrono di un’estetica cupa e monocorde che rende difficile distinguere l’orientamento, specie nelle prime ore di gioco.
Sul fronte audio, Killing Floor 3 offre invece una performance di buon livello: il sound design delle armi è potente e gratificante, con colpi che hanno il giusto peso e impatto sonoro. Tuttavia, l'effetto si smorza quando si utilizzano armi leggere o alternative, che restituiscono sensazioni più piatte e quasi giocattolose. Anche i dialoghi dei personaggi risultano ripetitivi e poco ispirati, spesso affogati in battute forzatamente ironiche che rompono la tensione invece di costruirla.
Le cutscene, quando presenti, sono basilari, quasi superflue. Non tanto per colpa della regia – che anzi cerca di ritagliarsi un minimo di spazio tra le ondate – quanto per la scarsa incisività narrativa di ciò che mostrano: tutto sembra sempre un pretesto per tornare al massacro, senza alcuna costruzione del mondo di gioco.
Non mancano infine piccoli bug di compenetrazione, glitch visivi e animazioni legnose che, pur non compromettendo l’esperienza su Series X, contribuiscono a quel senso di “work in progress” che permea l’intero titolo. Killing Floor 3 funziona, ma non stupisce mai, neanche su una console che ha dimostrato più volte di poter offrire molto di più – anche in contesti più complessi o meno votati alla pura azione.
Versione Testata: Xbox Series X
Voto
Redazione

Killing Floor 3
Killing Floor 3 è un sequel che spara con forza ma colpisce solo a metà. L’impatto delle armi, la sensazione tattile del combattimento ravvicinato e l’intensità dei momenti più concitati sono innegabilmente soddisfacenti, soprattutto per chi cerca un'esperienza brutale e immediata. Ma quando si va oltre la superficie, emergono tutte le fragilità di una formula che non ha avuto il coraggio di evolversi, limitandosi a levigare ciò che già funzionava in passato.
La struttura delle missioni è ripetitiva, la cooperazione è debolmente incentivata, le boss fight diventano una prova di resistenza più che di strategia e il sistema di progressione, tra crafting e perk, risulta più noioso che stimolante. Anche sul fronte tecnico, il gioco non osa mai davvero, proponendo una realizzazione solida ma priva di guizzi, perfettamente funzionale su Xbox Series X, ma mai sorprendente.
Alla fine, Killing Floor 3 è uno sparatutto che sa essere divertente ma raramente memorabile, incapace di distinguersi davvero in un panorama dove la concorrenza è sempre più creativa e raffinata.