Swiped, la recensione: il biopic che non osa scavare nell’ombra

Un biopic che si lascia guardare, ma non lascia il segno, sorretto quasi interamente dal talento di Lily James.

di Biagio Petronaci

Con Swiped, Rachel Lee Goldenberg porta sullo schermo la vicenda di Whitney Wolfe Herd, imprenditrice che da ex co-fondatrice di Tinder ha saputo reinventarsi fino a diventare un’icona del tech al femminile con la nascita di Bumble. Il materiale di partenza ha tutto per catturare: il dietro le quinte di un colosso digitale, le dinamiche tossiche della Silicon Valley e l’ascesa di una donna destinata a diventare la più giovane miliardaria self-made al mondo. Eppure, nonostante queste premesse incandescenti, il film sceglie la via del biopic rassicurante, preferendo ispirare piuttosto che indagare a fondo le contraddizioni della protagonista e l’ambiguità dell’ambiente che la circonda. Ecco la recensione di Swiped.

La trama di Swiped: un racconto che semplifica la complessità

Il film segue la storia di Whitney Wolfe Herd (Lily James), giovane laureata che sogna inizialmente di lanciare un’app solidale per collegare volontari e associazioni. La sua strada incrocia però quella di Sean Rad (Ben Schnetzer) e di un gruppo di imprenditori della Silicon Valley: nasce così Tinder, app di incontri destinata a rivoluzionare il dating online. Whitney contribuisce in modo decisivo al suo lancio e alla sua popolarità tra i giovani universitari, ma ben presto si scontra con un ambiente tossico, dominato da uomini che minimizzano e giustificano molestie e discriminazioni.

Il conflitto si acuisce con Justin Mateen (Jackson White), collega ed ex partner sentimentale. Dopo le umiliazioni pubbliche e un processo di esclusione interna, Whitney lascia Tinder e decide di fondare Bumble, un’app che ribalta le regole del gioco: nelle connessioni eterosessuali sono le donne a fare la prima mossa.

Goldenberg sembra ispirarsi a modelli come The Social Network o Air, ma ne coglie soltanto la patina esteriore. Là dove Fincher o Affleck scavavano nelle contraddizioni del successo e nei conflitti interiori dei protagonisti, Swiped rimane ancorato a una narrazione prevedibile, che privilegia la linearità a scapito della profondità. Whitney viene tratteggiata come un’eroina resiliente, decisa a sfidare un sistema maschilista, ma il film raramente si concede di mostrarne le fragilità o i compromessi. È come se la sceneggiatura temesse di incrinare l’immagine della protagonista, adottando un registro agiografico che finisce per smorzare l’impatto emotivo della sua parabola.

La struttura del biopic “da manuale”

Swiped segue una traiettoria fin troppo riconoscibile: l’idea iniziale, la caduta segnata dalle discriminazioni e dal rapporto tossico con l’ex partner e collega Justin Mateen, fino alla rinascita con la creazione di Bumble. È un percorso lineare, privo di scarti narrativi, che riduce la complessità della realtà a un montaggio di tappe obbligate.

In questo senso, Goldenberg sembra aderire al modello più classico del biopic hollywoodiano, quello che trasforma una vicenda di successo in un racconto edificante, sacrificando le zone d’ombra sull’altare della chiarezza narrativa. Le tensioni interne a Tinder, l’ambiente permeato da misoginia, le conseguenze psicologiche delle minacce subite da Whitney: tutti elementi che avrebbero potuto restituire la dimensione ambigua e disturbante di quella storia, ma che vengono evocati solo di passaggio, quasi come obblighi di sceneggiatura.

Il risultato è un film che, pur scorrendo senza intoppi, rinuncia alla possibilità di problematizzare davvero il mito dell’imprenditrice self-made. Invece di interrogarsi sulle contraddizioni di un sistema che celebra le figure femminili solo quando incarnano un modello “positivo”, Swiped preferisce offrire un ritratto rassicurante, confermando i limiti di un genere che troppo spesso si accontenta della superficie.

Il cast di Swiped: Lily James colonna portante

Se il film riesce a mantenere vivo l’interesse dello spettatore, il merito è soprattutto di Lily James. L’attrice conferma la sua straordinaria versatilità, calandosi con naturalezza nei panni di una Whitney Wolfe Herd credibile e intensa. È nei momenti di vulnerabilità (gli attacchi di panico, le scene di isolamento, le pause cariche di silenzi) che Swiped trova finalmente un’autenticità altrimenti assente, riuscendo a restituire il peso umano dietro l’icona imprenditoriale. James conferisce al personaggio una complessità che la sceneggiatura tende ad appiattire, bilanciando forza e fragilità con misura e sensibilità.

Molto meno incisivi, invece, i comprimari. Dan Stevens appare confinato in un ruolo caricaturale, quasi fumettistico, incapace di offrire reale spessore al proprio personaggio. Jackson White, nei panni dell’antagonista tossico, si limita a un ritratto monodimensionale, privo di sfumature psicologiche, riducendo così la forza dei conflitti narrativi. Questo squilibrio tra la protagonista e il resto del cast finisce per rendere il film sbilanciato, accentuando la sensazione di un’opera costruita intorno a una sola, magnetica presenza.

Una messa in scena piatta

Dal punto di vista visivo, Swiped sceglie la via della sicurezza, rinunciando a qualsiasi slancio creativo. La regia di Rachel Lee Goldenberg si limita a essere funzionale, senza mai imprimere un vero marchio stilistico: la fotografia risulta piatta, i montaggi musicali appaiono forzati e l’uso insistito di needle drops sembra più un artificio pubblicitario che un dispositivo narrativo. Il risultato è un’estetica patinata, che riduce la forza drammatica della vicenda a una sequenza di immagini confezionate come uno spot motivazionale.

Un limite che pesa ancora di più se confrontato con altri recenti biopic, capaci di rinnovare il linguaggio del genere: il dinamismo nervoso di BlackBerry, l’ironia corrosiva di Tetris o, andando più indietro, la freddezza chirurgica di The Social Network. Rispetto a questi esempi (tutti con un’identità propria), Swiped appare ancorato a formule datate, poco incisivo nel restituire il conflitto tra la dimensione intima della protagonista e l’impatto globale della sua creatura digitale.

Temi sfiorati in Swiped, ma non esplorati

L’aspetto più deludente di Swiped è l’occasione mancata di affrontare a fondo i grandi temi che la vicenda porta con sé. L’impatto delle dating app sulle relazioni interpersonali, la pervasività della cultura tossica nelle startup tecnologiche, la contraddizione tra empowerment femminile e logiche di mercato: questioni centrali che vengono appena accennate, ma mai realmente sviluppate.

Bumble, nel racconto, diventa un simbolo di emancipazione e rinascita, ma il film non si interroga fino in fondo su quanto abbia davvero cambiato l’esperienza delle donne nel mondo del dating digitale. Non c’è spazio per un’analisi critica né per una riflessione sulla natura ambivalente di una piattaforma che, pur nata come strumento di liberazione, resta inserita nelle dinamiche competitive e talvolta spietate del capitalismo tecnologico.

Ne emerge un racconto rassicurante, che preferisce offrire un messaggio edificante e facilmente digeribile invece di confrontarsi con le contraddizioni e le zone grigie del mondo che mette in scena. È proprio questa mancanza di coraggio critico a impedire al film di lasciare un segno duraturo, confinandolo entro i confini di un biopic di consumo.

Com’è Swiped: conclusione della recensione

Swiped è un film che si lascia guardare e che trova nella prova intensa e sfumata di Lily James il suo elemento di maggior valore. Tuttavia, al di là della performance della protagonista, l’opera appare priva di coraggio: sceglie la via del racconto lineare e rassicurante, rinunciando a interrogare davvero le contraddizioni del suo soggetto. Più vicina all’agiografia che a un’indagine critica, la regia di Rachel Lee Goldenberg spreca l’enorme potenziale di una vicenda che avrebbe meritato ben altro spessore. Il risultato è un biopic corretto, ma anonimo, destinato a lasciare allo spettatore la sensazione di un’occasione mancata.

Swiped – il verdetto

Pro

Contro

La performance intensa e sfaccettata di Lily James

Regia anonima e messa in scena piatta

Alcuni momenti di vulnerabilità autentica che restituiscono profondità alla protagonista

Sceneggiatura troppo lineare e priva di sorprese

 

Temi centrali (dating app, misoginia, logiche di mercato) appena accennati e mai approfonditi

 

Comprimari caricaturali e poco credibili

 

Tendenza agiografica che impoverisce il potenziale critico della vicenda