September 5 è il film “bello e invisibile” degli Oscar 2025: la recensione
Candidato agli Oscar come miglior sceneggiatura originale, September 5 è un film che funziona come un thriller teso e rigoroso, risultando migliore di altri candidati ben più blasonati.

Rischia di passare inosservato September 5, con la sua solitaria nomination come miglior sceneggiatura originale agli Oscar 2025. Chi tiene d’occhio gli Academy Awards però lo sa: le categorie dedicate alla scrittura spesso funzionano come riconoscimento parallelo e alternativo a quelle più impettite e tradizionaliste di miglior film. In passato molti giovani talenti e ottimi film sono passati (quasi solo) da qui, talvolta vincendo. Considerando quant’è difficile allo stato attuale della corsa ai premi entrare in gara con una sola candidatura, e considerata la candidatura in questione, il sospetto che September 5 sia un ottimo film viene fin da subito.
Sospetto più che confermato, dato che è, nel suo complesso e nelle sue singole parti, migliore di altri candidati ben più blasonati. Come spesso accade infatti, quando il cinema scritto bene e diretto meglio riflette sul giornalismo - come professione, come etica, come necessità e come agente di cambiamento sul mondo - regala grandi film.
Un thriller nella sala regia della Storia
September 5 dunque raccoglie l’eredità di film passati prima di lui dall’Academy come Spotlight e The Post, ma anche a ben vedere Zodiac, per come rilegge un avvenimento che conosciamo molto bene con la lente del giornalismo che ce l’ha raccontato in prima battuta. Un avvenimento storico drammatico che il cinema ha già raccontato da molte prospettive. L’attacco alla delegazione israeliana alle Olimpiadi di Monaco del 1972 infatti è diventato materia filmica in molte occasioni, con film anche di notevole visibilità; dal fronte documentaristico fino a Munich di Steven Spielberg. Lo spettatore dunque approccia September 5 ben sapendo quale sarà l’epilogo drammatico della storia e pensando ci saranno per lui poche sorprese.
Invece September 5 è un film teso e che tiene sulle spine dall’inizio alla fine, come un vero e proprio thriller, che per giunta si consuma in un pugno di stanzette poco illuminate e corridoi angusti, di fronte a monitor che sfarfallano e telefoni a disco che squillano sul più bello. L’ambientazione infatti è quella della sede tedesca dell’emittente statunitense Abc, che per la prima volta trasmise in diretta le gare sportive dei giochi olimpici, a colori, agli Stati Uniti.
La redazione sportiva dunque, a migliaia di chilometri dalla sede centrale, si trovò a essere l’unica emittente sul campo con i mezzi e la possibilità di raccontare al mondo il sequestro in diretta, a partire dalla celebre ripresa del sequestratore con la balaclava che esce sul balcone. Un pugno di produttore, reporter, tecnici e registi specializzati nella copertura di gare sportive si trovò a gestire la messa in onda in diretta della prima cronaca di un attacco terroristico, poi ripresa e seguita da tutte le televisioni del mondo, lottando per mantenere il controllo con la redazione giornalistica delle news, solitamente prepostare alla copertura di queste notizie ma non presente in Germania.
Il film di Tim Fehlbaum racconta dal principio questa vicenda mediatica fondendo realtà e finzione. Per esempio le riprese del commentatore in studio sono spezzoni originali della diretta (quindi il presentatore Jim non è interpretato da alcun attore, ma da sé stesso). Invece altri personaggi sono una fusione di varie figure che ebbero una parte in questo straordinario pezzo di storia giornalistica, a partire dalla traduttrice Marianne Gebhardt (Leonie Benesch, protagonista del tedesco La sala professori, per rimanere in zona Oscar).
Il personaggio della giovane traduttrice è una fusione di varie figure professionali tedesche assunte dagli statunitensi che presero parte alla copertura dell’Abc. Marianne è l’unica figura femminile di una certa rilevanza nella storia, ma fornisce un punto di vista essenziale, poco investigato. Quello dei tedeschi di seconda generazione rispetto alle vicende dell’Olocausto, che vedono il sogno di una Germania cambiata e presentabile al mondo dopo l’eccidio nazista sfumare quando nuovo sangue ebreo macchia i Giochi. La frizione e la tensione con gli americani (specie quelli di origine ebraica) è palpabile, in un’Europa giovane, che esiste di nome ma è tutta da costruire, di fatto.
La diretta, le sue difficoltà e i suoi tempi
Al centro di September 5 e della sua sceneggiatura in continuo crescendo c’è la costruzione della copertura giornalistica dell’evento. È un brave new world: la possibilità di trasmettere in diretta un evento via satellite è un territorio nuovo, inesplorato, alla prima prova del nove. A questo si aggiunge un atto che non si sa nemmeno come definire: guerriglia o terrorismo? Senza precedenti, guidati solo dalla propria etica, dalla propria esperienza pregressa (che varia dalla guerra in Medioriente a poche settimane di dirette sportive) i protagonisti devono decidere cosa dire al mondo, come, quando.
In uno dei passaggi più potenti del film, si ritrovano anche a fronteggiare il dubbio che i sequestratori li stiano usando come cassa di risonanza. Stanno informando il mondo o stanno diffondendo un messaggio per altri? Senza dimenticare che, seguendo in diretta gli eventi, devono fronteggiare la possibilità meno che remota che qualcuno muoia in diretta e che i suoi parenti, informati dalla sola televisione, lo vedano succedere nello schermo a colori di casa.
September 5 esplora dunque questi dubbi deontologici che risuonano ancora nel giornalismo e nel mondo dei media attuali. Questi quesiti però qui sono praticamente ai loro albori. A contribuire a rendere teso e avvincente il racconto c’è il fatto che i personaggi fanno i conti con un tipo di lavorazione che a loro pare immediata ma che per noi ha l’attrito dell’analogico. Per “diretta” s’intende passare per il satellite (che va condiviso con l’emittente concorrente CBS). Ogni girato della troupe che l’emittente è riuscita a piazzare di nascosto oltre il blocco della polizia, dentro il villaggio olimpico, richiede portare loro la pellicola, farla uscire clandestinamente dai posti di blocco, svilupparla, montarla, comporre il titolo in sovrimpressione e poi, dopo molto tempo per noi ma quasi istantaneamente nella percezione dei protagonisti, metterla in onda.
Nelle duplici vesti di regista e cosceneggiatore, lo svizzero Tim Fehlbaum mette insieme un film davvero riuscito, che appare molto dinamico pur essendo compresso in poche salette affollate di tecnici, in cui un ottimo cast d’insieme riesce a rendere con naturalezza anche certi passaggi topici (forse un po’ stereotipati) del genere “giornalisti in diretta”. Passaggi come la telescrive che si attiva, la soffiata, il confronto serrato in corridoio tra produttori responsabili, le cornette del telefono sbattute, gli ordini dati a gran velocità agli assistenti di regia e via dicendo.
Più di tutto stupisce la tensione e il dinamismo che il film riesce a imbastire nel raccontare il suo continuo oscillare morale dei protagonisti tra il distanziarsi dai protagonisti umani della vicenda in modo da svolgere al meglio il loro dovere di cronaca e il loro riavvicinarsi per questioni identitarie, morali, ideologiche. Il tutto lontano dal cuore dell’azione, ma allo stesso tempo a un passo dalla stessa, pronte a sussurrare all’orecchio degli spettatori.
C’è una singola, bellissima scena che riassume tutto ciò che Tim Fehlbaum fa bene in questo progetto. Sappiamo già, sin dall’inizio, come andrà a finire, a differenza dei protagonisti. Quando però arriva la telefonata cruciale, lo sanno loro, lo sappiamo noi cosa dirà. Cala il silenzio in regia, la cinepresa zooma sulla mano che tiene la cornetta, lasciando fuori dalla scena ogni presenza umana, fino ad avere al centro della scena solo lei, l’epilogo. Ecco, September 5 sta tutto lì, in quel movimento di cinepresa, in quella voce senza corpo che, dalla cornetta, ci dice cos’è accaduto.
Durata: 91'
Nazione: Stati Uniti
Voto
Redazione

September 5 - La diretta che cambiò la storia
In apertura di September 5 assistiamo alla costruzione registica della gara del nuotatore statunitense dei record, Spitz. Il film ci mostra da subito come dietro l’emozione olimpica (la gioia del vincitore, ma anche le lacrime del nuotatore avversario tedesco) ci sia la capacità di un professionista della regia di prendere velocemente le decisioni giuste, giustapponendo le due immagini. Quello che ci sembra pura testimonianza documentaristica è in realtà racconto, fiction. Con la sua sceneggiatura e la sua regia lo svizzero Tim Fehlbaum racconta la costruzione di un drammatico racconto giornalistico, le scelte e i dubbi che nasconde, con un piccolo film rigoroso e un po’ algido, ma molto teso. Nel parlare dei limiti continuamente infranti dai media per assolvere al loro dovere di cronaca finisce inoltre per dialogare con il presente di quegli stessi mezzi, della stessa informazione. È un approccio che regala tensione e una dialettica conflittuale al film, oltre che a tenerci sulle spine per una storia di cui, comunque, conosciamo già il finale.