Rapito, recensione: la rabbia di Marco Bellocchio, ultimo maestro d’opera del cinema italiano

Bellocchio racconta una storia esemplare d’Italia con un film intenso e tragico quanto un’opera di Verdi: grandissimo cinema, che scrive e riscrive la storia d’Italia.

Rapito recensione la rabbia di Marco Bellocchio ultimo maestro dopera del cinema italiano

Non stupisce che la critica statunitense sia perplessa e poco partecipe di fronte a Rapito, il film con cui Marco Bellocchio ricostruisce il rapimento del piccolo Edgardo Mortara, mentre la stampa italiana ed europea si spella le mani a furia di applaudirlo. Non è certo una pellicola ermetica, ma è fondata su un sostrato culturale comune italico ed europeo che oltreoceano può sembrare polveroso, stantio.

Dentro il nuovo Bellocchio c’è la potenza tragica del Dies Irae, la forza dell’opera di Giuseppe Verdi che, da qualche parte, scorre e risuona ancora nella storia italiana vicina all’oblio. Storia bistrattata e dimenticata dai registi contemporanei, che lasciano al solo Bellocchio il compito di rivederla attraverso la lente del cinema, per dire qualcosa di amarissimo, polemico e tragicamente vero della nostra nazione, del suo rapporto tormentato, tumultuoso con “l’ospite vaticano”, con l’idea di religione come punto di partenza automatico, come dogma sociale.

O sei cristiano o sei fuori, insomma. Bellocchio con i suoi ultimi progetti non ha fatto che raccontare episodi esemplari di come si siano fatti l’Italia e gli italiani, nel passato e nel presente. Puntando un faro sul ruolo politico cruciale giocato proprio dal cristianesimo, in vicende intricate, vischiose, che di pio e religioso hanno pochissimo.

Rapito, recensione: la rabbia di Marco Bellocchio, ultimo maestro d’opera del cinema italiano

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Di cosa parla Rapito

Rapito racconta e sintetizza la tragica vicenda processuale del piccolo Edgardo Mortara. Una storia di tale potenza che persino Spielberg aveva carezzato l’idea di farci un film, portando Bellocchio a tirarsi in dietro e cedergli il passo.

Quando Spielberg ha mollato, Bellocchio è tornato della partita (e pare gli abbia già mandato copia del film). Quale miglior complimento si può fare a Bellocchio se non che davvero, la sua versione non fa rimpiangere quella sfumata del collega statunitense?

Il film si apre nel 1858 e si chiude negli anni ‘70 del XIX secolo: il periodo in cui gli italiani hanno fatto l’Italia, facendo i conti con l’ingombrante presenza dello stato pontificio. Sono gli anni di Porta Pia, la breve illusione della possibilità di costituire uno stato regio ma autenticamente laico.

Se la storia è andata così, se la breccia si è aperta, fa capire Bellocchio, il merito è stato anche di una vicenda cronachistica che influenzò e plasmò la Storia con la s maiuscola. La storia è quella di Edgardo Mortara, bimbo di 6 anni di famiglia bolognese di fede ebraica, sottratto ai suoi cari per essere portato in Vaticano e cresciuto come cristiano. Un po’ Verdi, un po’ libro cuore, un po’ Dickens, ma tanto, tantissimo Bellocchio: uno che ultimamente si è dedicato molto a raccontare il versante religioso della storia italiana.

La storia processuale racconta nel dettaglio quanto avvenuto: una servetta di casa battezza di nascosto il bimbo ancora neonato, temendo possa morire e finire all’inferno. Anni dopo riferisce il fatto a un magistrato della santa Inquisizione (un Gifuni inquisitorio da mettere i brividi), mettendo in moto la macchina vaticana che organizza un rapimento blandamente legalizzato del bimbo.

Mentre la famiglia tenta inutilmente di strappare il bambino al Vaticano, il Papa stesso (un Paolo Pierobon sheakesperiano, immenso) sviluppa un’ossessione per “l’anima perduta salvata in Cristo”, portando il soglio pontificio a scontrarsi con l’opinione pubblica di mezzo mondo.

La liberazione di Bologna dall’egida pontificia, la freddezza di Napoleone III, l’assedio e la breccia di Porta Pia. La grande storia come affresco fa da sfondo alla crescita di un bimbo strappato dal suo nido e indottrinato (nel senso peggiore del termine) in un mondo di baciapile a ripetere dogmi da soldato martire, sviluppando un culto di fedeltà assoluta per il pontefice.

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Cosa funziona e cosa no in Rapito

Rapito è un grande film di stampo classico: ci sono cupissimi cocchi trascinati da cavalli neri che trascinano via Edgardo, mentre la musica monumentale di Fabio Massimo Capogrosso accentua la sensazione di un bambino strappato dalle gonne materne, quasi che gli archi si uniscano alle urla disperate del bravissimo Enea Sala.

Viene da difendere Bellocchio istintivamente dagli attacchi di chi confonde classico con vecchio, sorpassato. Rapito infatti ha tutte le cifre del cinema rigoroso di un tempo, che si abbinano perfettamente a un racconto ambientato sul finire dell’Ottocento, in un mondo in cui il Papa è anche e soprattutto un Re. Pio IX qui è un re Lear, un Enrico VIII a cui risulta intollerabile la messa in discussione della sua superiorità religiosa e morale, un padre padrone che gode quando i delegati ebrei strisciano a baciargli la calzatura rossa nella speranza che il loro atto di sottomissione salvi Edgardo.

In Il traditore l’approccio registico e visivo di Bellocchio era infinitamente più contemporaneo, così come il ritmo. Rapito invece è dipinto monumentale come una tela religiosa settecentesca in una cattedrale buia, pennellata dalla fotografia maestosa di Francesco Di Giacomo. Non ha un ritmo veloce, ma procede a sferzate di rabbia verso la vicenda di un innocente trasformato in un arma. Rapito mostra una visione dogmatica da incubo in cui l’antisemitismo è appena nascosto dalla condiscendenza, in cui si vede in eccesso quel che poi è rimasto inalterato nella società italiana: un residuo religioso come status quo e dato di fatto, pronto a pesare sulle vite di tutti.

Per questo - da italiani - è difficile trattenere la trepidazione quando si apre la Breccia di Porta Pia. Viene da chiedersi perché debba essere proprio Bellocchio a far vivere al cinema con tale potenza un buco in un muro che ha aperto di botto un capitolo della storia italiana che diamo per scontato, erroneamente. Viene da chiedersi perché tanti colleghi si ostinino a fare pellicole ombelicali, provinciali, concentrate sull’infinitamente piccolo quando la storia italiana è in attesa di diventare paradigmatica per chiunque, ovunque nel mondo.

Rapito, recensione: la rabbia di Marco Bellocchio, ultimo maestro d’opera del cinema italiano

L’urlo disperato di Fausto Russo Alesi a tribunale vuoto, quando si rende conto che la giustizia per lui non ha nulla di giusto, quando capisce che la sua causa sta facendo l’Italia ma non farà tornare a casa Edgardo. La confusione di Edgardo adulto (un Leonardo Maltese che come attore continua a non convincere) che sullo sprone del momento si unisce a un atto di facile giustizialismo, ma poi si rifugia in litanie infinite che gli sono state inculcate da bambino, rassicurato dalla sua stessa ortodossia. La vittoria è del Papa, che è riuscito a renderlo autenticamente italiano nei suoi vizi, nei suoi istinti.

Rapito prende un storia secolare per ricordarci che l’Italia è ancora quel luogo in cui una vicenda drammatica può ispirare un ideale politico, condurre a un ateismo disgustato, consumare genitori i cui figli sono stati sottratti in nome di una visione omogenea e falsata di una realtà composita, multiculturale. Un luogo e una nazione dove l’alto e il popolare si mescolano continuamente, come il latino e il bolognese in questo film.

Rapito

Rating: Tutti

Durata: 125'

Nazione: Italia

8

Voto

Redazione

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Rapito

Monumentale e canonico come un’opera verdiana, il nuovo film del direttore d’orchestra Bellocchio racconta con rabbia e orgoglio una vicenda che s’intrecciò con la storia d’Italia, probabilmente contribuì a farla. Grande storia, grande cinema, firmato da un grande Bellocchio.