La mia famiglia a Taipei: la mano sbagliata, il mondo giusto in un film che conquista
Tre generazioni di donne contro il peso silenzioso delle regole, in una Taipei brulicante, caratterizzano l'irresistibile film che ha vinto la Festa del cinema di Roma.

Esiste un paradosso nella Taiwan contemporanea: mentre l'isola si è trasformata in una delle economie più tecnologicamente avanzate dell'Asia, diventando epicentro globale della produzione di semiconduttori e per l'innovazione digitale, i suoi mercati notturni continuano a brulicare di ritmi ancestrali. È in questo microcosmo di vita popolare che Shih-Ching Tsou colloca Left Handed-Girl - diventato in italiano un più "rassicurante" La mia famiglia ai Taipei - suo secondo lungometraggio ad oltre vent'anni di distanza dal debutto Take Out (2004), per altro co-diretto con Sean Baker, futuro premio Oscar con Anora (2024). Lo stesso Baker che qui si è impegnato direttamente in fase di produzione, montaggio e sceneggiatura, curata a quattro mani con la stessa regista.
Ci troviamo davanti ad un'opera che segna una maturazione stilistica sorprendente per una cineasta che ha costruito carriera principalmente come produttrice e collaboratrice tecnica dello stesso Baker, qui chiamata alla sua prima regia in solitaria e capace di conquistare critica e pubblico, tanto da vincere anche il premio principale alla recente edizione della Festa del Cinema di Roma. Scopriamo insieme trama e contenuti.

La mia famiglia a Taipei, tra lacrime e sorrisi
Tra i corridoi affollati e illuminati al neon del mercato notturno di Taipei, Shu-fen è una madre single che gestisce un chiosco di noodles, cercando di tenere insieme un'esistenza che da tempo ha perso stabilità. Il marito è sparito da tempo, ma i debiti sono rimasti, così come la fatica quotidiana di crescere da sola due figlie molto diverse tra loro: la ventenne I-Ann, alle prese con un'inquietudine ribelle che non trova sfogo, e la piccola I-Jing, di appena cinque, lasciata spesso a esplorare da sola la città con uno sguardo ancora ingenuo ma già vispo e aperto al mondo.

La primogenita lavora di nascosto come betelnut girl (ragazze che in abiti succinti prestano servizio in chioschi di stuzzicherie e sigarette), mentre la bambina è solita attraversare i vicoletti del quartiere. Ma quando il nonno materno, fortemente tradizionalista, nota il suo essere mancina, le spiega che questo significa possedere la "mano del diavolo", una maledizione che I-Jing interiorizza a tal punto da credere che il suo arto agisca di propria volontà, cominciando a compiere piccoli furti e marachelle.
Un cinema da (ri)scoprire
Il cinema taiwanese è purtroppo ancora poco conosciuto dal grande pubblico, pur avendoci regalato autori e capolavori che sono entrati di diritto nella storia del cinema. Basti pensare ad Ang Lee, Tsai Ming-liang, Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang, soltanto per citare i più conosciuti. La mia famiglia a Taipei, pur mantenendo un'indole più commerciale e rivolta al grande pubblico nelle sue atmosfere da comedy-drama moderno, è un film che ha fatto tesoro della lezione, inserendosi pienamente nella corrente della new-wave nazionale, conquistando con una sincerità di intenti e di emozioni che arriva dritta al cuore.

Merito in gran parte dell'efficace cast e in particolar modo della piccola Nina Ye, che nelle vesti di I-Jing riesce coi suoi sguardi teneri e buffi ma già colmi di non detti a conquistarsi il favore degli spettatori, in attesa di quel colpo di scena finale che rimescola le carte in tavola in maniera solo parzialmente inaspettata, giacché suggerita da almeno una precedente scena madre.
Questione di sguardi
Dal punto di vista stilistico, Shih-Ching Tsou compie una scelta radicale e coerente: girato interamente con iPhone, il film intende annullare la distanza tra spettatore e personaggi, trasportandoci di peso all'intero di questa complessa vicenda familiare tutta al femminile. La Taipei che emerge non è quella da cartolina, ma un labirinto di luci al neon, vapori di cucina e spazi angusti, dove la saturazione cromatica diventa quasi tattile e le notti cittadine diventano veri e proprio palcoscenici di vita. La regia si ritrova spesso a pedinare I-Jing nelle sue esplorazioni solitarie tra le bancarelle o si soffermandosi sul volto stanco di Shu-fen o su quello tormentato di I-Ann, mappatura di fallimenti in cerca riscatto mentre tutto sembra crollare loro addosso.

La scrittura, pur procedendo per accumulo di situazioni quotidiane, alcune più tragiche altre più liete e altre foriere di incredibili rivelazioni, evita sapientemente il ricatto melodrammatico, senza mai cedere al patetismo ma donando anzi estrema dignità a queste tre generazioni di donne: il mancinismo di I-Jing diventa la metafora portante dell'intera opera - non a caso sottolineata dal titolo originale e internazionale - simbolo di chi è costretto a vivere da diversa in una società che premia solo l'omologazione e l'efficienza destrorsa. E che ha bisogno di qualcuno che sparigli definitivamente il tutto.
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Rating: TBA
Durata: 109'
Nazione: Taiwan
Voto
Redazione

La mia famiglia a Taipei
Un ritratto familiare che profuma di cibo di strada e di lacrime trattenute, pronte a trovare sfogo in un finale che mette a nudo segreti scomodi e ferite mai rimarginate, senza però scivolare nella facile retorica. Il film sceglie invece di affidarsi alle emozioni nude e crude, lasciandole emergere attraverso le interpretazioni di un cast perfettamente allineato ai propri personaggi. Tre donne, madre e figlie, chiamate a fare fronte comune in un momento di crisi: La mia famiglia a Taipei si configura così come un microcosmo domestico di esistenze sospese tra ciò che è già stato e ciò che prospetta il domani. Un racconto misurato e sensibile, capace di tenere insieme un’anima cupa, quasi neorealista, e una leggerezza esistenziale che non cancella il dolore ma lo disseziona, trovando nello sguardo birichino e ostinatamente speranzoso della piccolissima protagonista il suo appiglio più luminoso.













