Alpha, l’apocalittica pandemia di Julia Ducournau nasconde solo macerie: la recensione del film

Julia Ducournau crea immagini fortissime e memorabili ma, a differenza di Titane, Alpha è un insieme di ricordi e istanze senza una visione d’insieme forte.

Alpha lapocalittica pandemia di Julia Ducournau nasconde solo macerie la recensione del film

Dopo la vittoria della Palma d’Oro con il cronenbergiano, estremo Titane, il ritorno della regista Julia Ducournau in Croisette era molto atteso. Si parlava persino di una seconda Palma nel caso Alpha avesse saputo toccare le corde giuste. La pellicola invece si è rivelata invisa a buona parte della stampa. Insomma, il film è quantomeno divisivo. Questa però non è di certo una sorpresa di fronte a un cinema così forte e senza compromessi. Anche Titane aveva e ha i suoi detrattori, ma qui il responso è in prevalenza negativo.

Stavolta mi ritrovo nella maggioranza e anzi, considerando il nome che c’è dietro, lo bollerei come il peggior film visto finora in concorso. Non in toto, perché le idee e le immagini ci sono, ma per le potenzialità di un’autrice che qui non riesce davvero a trasformare lo shock visivo delle sue creazioni in un racconto a tutto tondo, come invece era accaduto con la Palma Titane.

Dopo Titane, Ducournau fa un passo falso

Sulla carta Alpha doveva essere il suo allontanamento dai film di genere per abbracciare un cinema più drammatico e basato nel reale. Se non avesse dichiarato lei stessa quest’intenzione presentando il film però, sarebbe stato facile scambiare questa minima deviazione come puramente intenzionale. È vero infatti che il film si consuma tra anni ‘80 e ‘90 dai colori da pellicola Kodak contrapposto a un presente più desaturato, freddo, in cui i volti bellissimi dei protagonisti diventano scavati dalle ombre, sofferenti, respingenti, contorti. Tuttavia tra allegorie visive e tematiche che lo spingono nel territorio apocalittico, si può veramente dire che Alpha non sia un film di genere?

Ducournau qui guarda al passato, scavando nelle memorie di famiglia e in quelle collettive per raccontare un trauma sanitario che fa capolino in molti film di quest’edizione: quello della generazione perduta dell’AIDS, in quegli anni ‘90 in cui milioni di persone - omosessuali, tossicodipendenti, giovanissimi - persero la vita allo scoppio di un’epidemia drammatica. Epidemia a cui non viene mai data un’etichetta precisa, tanto che qua e là infermiere con mascherine e divisori ospedalieri fanno piuttosto pensare al COVID. La collocazione temporale dei flashback e l’insistenza sul sangue, sugli aghi infetti come veicolo di contagio e sulla popolazione omosessuale come target però rendono inequivocabile nei fatti il riferimento mai esplicitato a parole.

Ciò che funziona in Alpha, al solito, sono le immagine corporee, legate al sangue, ai muscoli, alle ossa. Nello specifico Ducournau immagina che la malattia marmorizzi a poco a poco il corpo, trasformi il fiato in polvere di calce, inghiottendo il calore, la morbidezza dei corpi. D’altronde il suo cinema è duro e teso, turgido e sanguinante fin dalle premesse. La giovane protagonista, la 13enne Alpha, sanguina costantemente, involontariamente. A una festa si ubriaca e le viene fatto un tatuaggio, forse con un ago infetto. Nei fatti il film è costruito su una doppia paranoia: quella delle persone attorno a lei che stigmatizzano il morbo e quanti sono sospettati di essere contagiosi e quella personale di un’adolescente in attesa dei risultati di un test di controllo. Una ragazza i cui motivi più o meno coerenti, più o meno autodistruttivi dell’esporsi al rischio del contagio cozzano con la premessa precedente (cioè che il presente sia ben più paranoico di quanto lei è bimba e il virus comincia a circolare).

Visionario sì ma anche confuso

C’è tanto di malposto e malamente abbozzato dietro le immagini forti e indimenticabili di questo film. Dietro la scena potentissima della schiena di un Tahar Rahim mai così trasformato (ha perso 20 chili per il ruolo) sofferente e davvero martire che si frantuma ci sono passaggi che colpiscono in negativo per approssimazione. Vedi l’ottimo Finnegan Oldfield a cui tocca l’ingrato compito di spuntare la casella “parliamo degli omosessuali” con un passaggio dedicato a un insegnante gay il cui compagno è infetto, che è poco più di una voce spuntata da una lista di cose da includere.

È vero che il cinema è innanzitutto potenza dell’immagine e dei suoni, ma Ducournau ci immerge in una cacofonia in cui il frastuono è altissimo per coprire il bisbiglio narrativo delle sue idee mal raccordare. La scena in cui Alpha tenta di scappare di casa ma poi chiama disperata la mamma aggrappandosi all’impalcatura traballante fuori dalla finestra dovrebbe essere l’inizio di un ritratto di un fuori ostile e crudele, che però si esaurisce nel più convenzionale bullismo scolastico. La scena del pranzo in famiglia, con tre generazioni che faticano a trovare un terreno comune linguistico(c’è chi parla solo il berbero, chi solo il francese e tutte le vie di mezzo) e con la pandemia che rischia di azzerare un processo di integrazione ancora in corso è personale, probabilmente un ricordo. In ultima istanza non funziona, poiché annegata dell’assurda volontaria di ribadire visivamente e sonoramente l’incomunicabilità di fondo sovrapponendo almeno tre tracce audio differenti: musica classica sparata ad alto volume, un brano differente e ovviamente i familiari che si sovrappongono, spiegano e traducono.

Ai visionari a volte viene chiesto qualcosa d’ingrato: di assicurarsi che la loro prolificità di creatori d’immagini evocative sia attentamente orchestrata, onde non cadere in un turbinio d’immagini vuote. Giunta al suo terzo film, Ducournau ha già ampiamente provato di essere una cineasta di grandi capacità e con una visione personale e forte. Stupisce come dopo Raw e Titane il sangue e i fluidi diventino ancora una volta simbolo e allegoria del tema centrale del film, in questo caso il tabù, l’intoccabilità.

Purtroppo però stavolta la potenza delle immagini non ha a supportarla quella di un racconto altrettanto sferzante. Le memorie rielaborate di Ducournau diventano un intreccio narrativo abbastanza convenzionale di emarginati e discriminati, il cui unico punto d’interesse per come questo fermi e inverta un processo d’integrazione e assimilazione ancora non concluso dopo tre generazioni. A mancare è Alpha, la protagonista, che nonostante l’apocalittico nome è una summa di reazioni adolescenziali senza meta e visione d’insieme.

Alpha

Durata: 128'

Nazione: Francia

5

Voto

Redazione

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Alpha

Non per colpa dei interpreti - che ci mettono tutto quello che hanno - Alpha è un racconto di grandi immagini la cui valenza inizia e finisce proprio nella dimensione visiva sferzante propria dello stile di Ducournau. Indispettisce quando il suo mondo polveroso e ventoso rimanga ai margini perché di fatto confuso, mal delineato. Si rimane similmente delusi quando si nota quanto poco il film lasci giunto alle sue conclusioni, nonostante la pellicola sia popolata da personaggi così sofferenti nella carne e nella mente.
In un momento storico in cui la lotta all’AIDS ha segnato svolte importanti e cambiato la prospettiva, Alpha sembra quindi un film sul trauma generazionale dell’inizio dell’epidemia che non aggiunge o apporta niente al racconto di quell’epoca, se non appunto un pugno d’immagini potenti ma vuote.

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