After the Hunt conferma che Luca Guadagnino non ha paura di toccare argomenti scomodi
Con il suo racconto di una violenza sessuale consumatasi in un campus universitario, Luca Guadagnino guarda al confronto generazionale sui temi del #MeToo, senza paura di scatenare reazioni forti.

Ricordate la scena di Challengers di Luca Guadagnino in cui il personaggio di Josh O’Connor rimorchia una cliente al bar del hotel per poter dormire in camera sua prima della partita dell’indomani? L’interprete di quel piccolo ruolo - Nora Garrett - è anche la sceneggiatrice di After the Hunt. Un film che conferma due verità che forse sapevamo già sul regista italiano più amato a livello internazionale: Guadagnino sa portare a casa un film anche quando si addentra in territori spinosi e finisce sul ghiaccio sottile, magari perché è proprio lui ad aver voglia di dire cose difficili, divisive, che non mettano il pubblico a suo agio.

Difficile immaginare un copione più delicato di quello proposto da Garrett a Guadagnino, che come molti colleghi ha tentato di misurarsi sui dilemmi che si è lasciato dietro il #MeToo con la sua difficile eredità, più precaria e complessa di quanto avremmo immaginato qualche anno fa. Al centro del film infatti c’è una giovane studentessa universitaria di nome Maggie Price (Ayo Edebiri), afroamericana, queer ma anche di famiglia ricchissima. Maggie è finita sotto l’ala protettrice di Alma (Julia Roberts), professoressa di filosofia caucasica in cerca di una cattedra, dalle grandi ambizioni professionali sostenute anche dal marito Frederick (Michael Stuhlbarg). Alma ha come confidente e pari (anche per ambizioni a una cattedra) Hank (Andrew Garfield), un assistente caucasico di umili origini che si sta facendo strada nel mondo accademico.ù
After the Hunt si chiede cosa conti di più tra ricchezza, etnia e genere
Le precisazioni su reddito, orientamento sessuale e etnia sono necessarie perché After the Hunt è tutto giocato sul continuo soppesare di questi fattori nel valutare le reazioni dei personaggi all’accusa di Maggie di aver subito molestie da Hank: è un film intersezionale, direbbero alcuni, per come interroga il suo pubblico su cosa pesi di più nelle dinamiche di potere: essere maschi in un modo misogino? Essere over 40 in un mondo plasmato dalla pressione morale esercitata dalle giovani generazioni per limitare o censurare alcuni comportamenti? O essere ricchi in una realtà il cui il denaro permette di coltivare aspirazioni molto grandi con un talento molto risibile?
Alma si ritrova al centro di un tiro alla fune tra l’amico e pari che accusa a sua volta la ragazza di muovergli una ritorsione per un’accusa di plaugio e Maggie, che vuole il sostegno incondizionato della mentore, anche a fronte di una situazione molto sfumata e ricchissima di contraddizioni. A chi credere, chi sostenere pubblicamente, chi disconoscere? La ragazza queer, la giovane donna afroamericana ma ricchissima e con una famiglia in grado di fare pressioni sul campus, esponente di una generazione Z allergica a tutto ciò che esuli un sostegno incondizionato? Oppure l’amico e collega che ha commesso la leggerezza di andare a casa della ragazza ma si professa innocente e, seppur maschio e bianco, lamenta di non avere gli agganci e le possibilità economiche della sua accusatrice e anzi, di non esserci nulla e possa dire o fare per difendersi in maniera efficace? After the Hunt si muove tra infinite rinegoziazioni di potere tra questi personali, con Ama come centro apparentemente anaffettivo della scena.

Pur essendo un film debole, After the Hunt prova il talento del suo regista
In realtà lei, Hank e Maggie interpretano in modo molto differente il concetto di giustizia e colpa e come gestirli, in pubblico e in privato. È su questo triangolo di relazioni dettate da continui scarti di potere che si muove il film più debole della filmografia recente del regista, quantomeno dall’esplosione di popolarità arrivata con Io sono l’amore. After the Hunt non è un film grandioso, ma, verrebbe da dire, Guadagnino è in buona parte incolpevole della suo essere riuscito a metà. Anzi, il fatto che dopo un inizio faticosissimo, in cui il pubblico deve subire i discorsi filosofeggianti molto vanesi e vacui del protagonisti, il film trovi una tensione e un ritmo lo si deve alla grande maturità artistica del regista. Guadagnino ormai riesce a gestire le debolezze della sua sceneggiatura senza lasciare che il film si sgonfi del tutto.
I problemi di After the Hunt sono due: come ogni film finora visto su questo argomento (con la pregevole esclusione di Tàr di Todd Field) non è in grado di problematizzare in maniera adeguata, appassionante e complessa l’infinito dilemma legato agli abusi di potere in ambito professionale. Anzi, sul finale tocca ancora una volta a Michael Stuhlbarg (il papà di Chiamami col tuo nome) l’ingrato compito di rendere credibile a livello narrativo e persino vibrante emotivamente una pezza. Il film è costretto a ricorrervi per per la sua incapacità di gestire un personaggio autenticamente controverso come Alma, molto meglio riuscita di Lydia Tàr, pur riprendendone movenze, outfit, stile d'insegnamento.
È la proverbiale toppa peggiore del buco di una storia che mette in scena l’aspro conflitto di sensibilità generazionali che viviamo oggi ma facendo in modo che a ciascuno venga riconosciuta la caratteristica più cara: alla gen z (qui insopportabile) la possibilità di dire che aveva ragione, alle precedenti la superiorità morale esercitata da quanti sanno nel bene e nel male mantenere una approccio maturo e badare a sé stessi.
Guadagnino è molto presente nella pellicola, disseminata di continue inquadrature di brani in riproduzione su spotify, libri, manifesti di film (occhio a un piccolo cameo di una pellicola di Almodóvar), oltre che la sua passione per la cucina. Michael Stuhlbarg sembra quasi un suo proxy, che giudica i personaggi e interrompe i dialoghi punteggiandoli di musica ad alto volume e osservazioni taglienti. Sicura di irritarlo, aggiungo e ribadisco che, come sempre, c’è tantissimo Bertolucci nel suo approccio, anche se qui dai titoli d’apertura e dal loro font è evidente che il riferimento è Woody Allen. Cosa ci può essere di più provocatorio di citare questo regista (e qua e là anche Polanski) in un film su questa tematica?

Non è un Guadagnino interessato a nascondersi, né coinvolto a livello emotivo come in Queer o Suspiria. Somiglia un po’ ad Alma in questo senso, per come cioè tiene occultato con cura ciò che l’ha spinto a scegliere questo copione tra tanti, ma poi concedendosi d’intervenire con la propria voce nel gran finale. Non ha nemmeno troppa voglia di amalgamare i suoi movimenti di macchina più caratterizzanti con il resto. Anzi: in ogni inquadratura delle mani dei protagonisti, in ogni movimento repentino della camera per cambiare prospettiva e inserire nuovi dettagli rivelatori c’è un che di esibito, didattico.
Un po’ come Bugonia per Lanthimos, After the Hunt è un film fatto da un regista straniero a Hollywood che ha guadagnato abbastanza fiducia e stima per poter imporre la propria visione, almeno fino a un certo punto. Il discorso che Stuhlbarg fa a Roberts, quando le chiede se sarà felice una volta ottenuta la cattedrale che anela da anni, vale anche per Guadagnino, evidentemente soddisfatto della libertà d’azione conquistata, della possibilità di poter inserire i suoi attori feticcio (Stuhlbarg e Sevigny) al fianco di vecchie e nuove star come Julia Roberts, Ayo Edebiri e Andrew Garfield. A brillare è soprattutto quest’ultimo, anche se in un ruolo abbastanza ingrato. Invece Roberts, pur facendo il suo, fa un po’ rimpiangere una personalità come quella di Cate Blanchett: negli alterchi più tesi, nei crescendi accademici e didattici più infuocati, sembra quasi di percepirne il fantasma.
Rating: Tutti
Nazione: Stati Uniti
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Redazione

After the hunt
In After the Hunt - Dopo la caccia Guadagnino fa il suo, non nascondendosi per nulla e anzi quasi esibendo il suo stile registico e il suo gusto musicale e culturale in un film che ha un unico ma cruciale difetto: la sceneggiatura di Nora Garrett non è coraggiosa come dovrebbe per portare il film a dire davvero qualcosa di significativo, di forte, di rilevante. Come molti altri film che hanno affrontato la tematica del #MeToo, e come lo stesso movimento, non riesce a trasformare le sue istanze sacrosante in un cambiamento concreto, tangibile, privo di zone d’ombra. Pur essendo la pellicola più debole dell’ultimo decennio del regista, è comunque una prova del suo grande talento: in altre mani un film con così tante empasse e pezze narrative sarebbe rovinato su sé stesso, invece Guadagnino riesce comunque a portarlo a casa.


