La morsa delle definizioni: Horses e i monopoli

Oltre la censura: come gli algoritmi di Steam condizionano il mercato indipendente.

La morsa delle definizioni: Horses e i monopoli

«Non siamo un monopolio, ci sono alternative». Secondo la definizione economica e giuridica tradizionale un monopolio implica controllo esclusivo di un mercato, capacità di fissare prezzi, accesso e condizioni contrattuali con ostacoli significativi all’ingresso di nuovi operatori.  Quella di Valve è una frase corretta, ma sostanzialmente fuorviante: piattaforme come Epic Games Store, GOG, itch.io, Humble, Microsoft Store e altri marketplace esistono, ma nessuna ha la stessa base utenti, lo stesso peso simbolico o la stessa legittimazione popolare di Steam. Senza tanti sofismi, nel 2026 non essere su Steam significa non esistere nel mercato PC.

Valve dichiara oltre 132 milioni di utenti attivi mensili e 41,66 milioni di utenti simultanei online. Ritrovare l’origine della forza della piattaforma è una somma complessa di meriti e tendenze squisitamente contemporanee:  effetto network, abitudine, standard implicito, asimmetria di visibilità, accesso al mercato e almeno un’altra dozzina di tecnicismi macro-economici che stridono più ci si allontana dai libri. Si configura così un monopolio de facto, in cui il dominio reale non è formalmente certificabile dalle autorità antitrust, ma produce effetti concreti soprattutto a monte della filiera, sulle scelte economiche e persino creative degli sviluppatori.

La morsa delle definizioni: Horses e i monopoli

Il caso Horses: perché il ban di Steam ed Epic Games Store fa discutere

La posizione dominante di Steam non è casuale né temporanea, e non richiede coercizione diretta per essere esercitata. Valve non deve spiegare perché rimuove un gioco, non è tenuta a fornire criteri verificabili e non subisce danni reputazionali significativi nel farlo. La piattaforma opera in una condizione strutturale di potere che rende l’abuso invisibile: molte software house dichiarano di derivare oltre il 75% delle proprie entrate PC dalla piattaforma, mentre survey indipendenti indicano che più del 70% degli sviluppatori considera Steam l’unico attore di rilievo nel mercato digitale. Senza la presenza su Steam la visibilità e le vendite necessarie a sostenere uno studio diventano impossibili, rendendo la dipendenza dalla piattaforma una condizione strutturale e non un incidente. Sul piano giuridico, tuttavia, la posizione di Steam è serena. 

La class action statunitense Elliott et al. v. Valve, avviata nel 2021, accusava Valve di esercitare una posizione dominante nel mercato della distribuzione digitale su PC attraverso pratiche escludenti: commissioni standard al 30%, clausole di parity pricing e un ecosistema che renderebbe economicamente svantaggioso per gli sviluppatori vendere altrove. Nel corso del biennio 24–25 il procedimento ha subito un progressivo ridimensionamento. Diversi capi d’accusa sono stati respinti o indeboliti: il tribunale ha ristretto la definizione di “mercato rilevante”, escludendo che Steam controlli l’intero mercato videoludico digitale (che include console, mobile e altri store PC), e ha ritenuto insufficienti le prove di un danno diretto e misurabile ai consumatori.

Valve, inoltre, ha potuto sostenere con successo che l’assenza di obblighi di esclusiva formale e la presenza di store alternativi impediscono di configurare un monopolio in senso tecnico. Il risultato è una causa che, pur non essendo completamente archiviata, appare oggi svuotata della sua portata sistemica: un esito che rafforza la distinzione cruciale tra monopolio legale e monopolio di fatto senza però indicare alcuna strada per sbrogliare una matassa distante da avvocati e giudici. Steam non è, secondo i tribunali, un monopolista in senso stretto, ma questa assoluzione giuridica non affronta il nodo centrale sollevato da casi come Horses: il potere strutturale di una piattaforma che, senza violare formalmente la legge antitrust, può comunque determinare l’accesso al mercato, la visibilità culturale e la sostenibilità economica di un’intera filiera.

Questa lettura difensiva poggia su un presupposto fragile: l’equivalenza formale tra l’esistenza di alternative e la loro reale praticabilità economica e culturale. Che esistano altri store PC non implica che questi costituiscano un mercato sostituibile per chi sviluppa o pubblica giochi. Gli altri servizi coprono quote marginali del traffico, della visibilità e delle vendite, e spesso richiedono modelli contrattuali, investimenti promozionali o target di pubblico radicalmente diversi. In parole povere l’assenza di esclusiva non coincide con l’assenza di dipendenza. È qui che il quadro antitrust tradizionale mostra i suoi limiti: il danno non è tanto per il consumatore finale, libero di acquistare altrove, quanto per i produttori, costretti a passare da Steam per accedere a un pubblico che nella quotidianità coincide con il mercato stesso.

La morsa delle definizioni: Horses e i monopoli

Oltre il gameplay: quando un videogioco diventa "troppo" per gli algoritmi

La libertà di scelta è asimmetrica: Steam può permettersi di rifiutare, rimuovere o penalizzare un contenuto; gli sviluppatori, nella maggior parte dei casi, non possono permettersi di ignorare Steam. La posizione di Valve viene così normalizzata come semplice “successo competitivo”, quando opera come un’infrastruttura culturale privatizzata, capace di esercitare un potere regolatorio senza le responsabilità tipiche di un soggetto pubblico o di un monopolista riconosciuto. È questo scarto tra legalità e impatto reale che rende casi come Horses fondamentali per comprendere il funzionamento reale dell’economia delle piattaforme.

Questa condizione di potere è rafforzata dalla narrativa culturale che circonda Steam. La piattaforma gode di un capitale simbolico enorme, costruito nel tempo attraverso pratiche percepite come “virtuose”: una politica sui rimborsi rivoluzionaria, un linguaggio comunicativo ironico e memetico, un posizionamento storicamente pro-PC gaming. Gabe Newell è stato a lungo rappresentato come un CEO umano e benevolo, mentre Steam diventava nell’immaginario collettivo la piattaforma anti-corporation per eccellenza. Questa mitologia ha prodotto una vera e propria protezione affettiva: una parte consistente del pubblico tende a minimizzare comportamenti predatori, regolazioni arbitrarie o opacità strutturali, mentre denuncia con forza altri giganti informatici come Apple o Google. In un panorama popolato da “cattivi” Valve continua a sedere sorridente su un piedistallo reputazionale che fino a pochi anni fa condivideva, tra gli altri, con CD Projekt RED.

Frasi come «nessuno ti obbliga a usare Steam» o «è una compagnia privata, può fare quello che vuole» rivelano una profonda dissonanza cognitiva: Steam non viene percepita come un’infrastruttura di potere, ma come un’alleata culturale a cui è tutto permesso. Ed è proprio questa percezione a permetterle di mantenere una posizione dominante senza bisogno di una reale giustificazione pubblica quando viene impiegato il bastone al posto della carota. Horses, horror italiano sviluppato da Santa Ragione, riporta prepotentemente al centro del dibattito il tema del monopolio esercitato dalle piattaforme dominanti. Nonostante gli sviluppatori abbiano chiarito che il gioco non contiene scene sessuali esplicite, Steam lo ha rifiutato più volte per presunti “elementi non conformi”, senza fornire criteri chiari o motivazioni trasparenti. Epic Games Store aveva inizialmente mostrato apertura verso la distribuzione, salvo poi fare marcia indietro. GOG ha invece sostenuto la pubblicazione del titolo senza particolari remore, dove ancora oggi potete acquistarlo.

La morsa delle definizioni: Horses e i monopoli

Definire il videogioco: chi decide cosa può restare sugli scaffali digitali?

Questa asimmetria evidenzia come il controllo non sia solo economico: determina chi può esistere sul mercato e in quale forma i contenuti possono essere resi leggibili agli utenti. Il caso Horses è emblematico perché incrina la narrativa di Steam come piattaforma permissiva, spesso additata come “libera”. Il gioco non propone pornografia esplicita, ma lavora su ambiguità, disagio e violenza simbolica: elementi difficili da classificare secondo compartimenti rigidi. É un gioco problematico da rinchiudere all’interno di criteri di moderazione opachi e non formalizzati. Al contrario, contenuti erotici estremi o tematicamente discutibili vengono spesso accettati senza attriti, perché rientrano in categorie culturalmente codificate, riconoscibili e gestibili dal punto di vista del rischio infrastrutturale. Per anni la piattaforma ha ospitato un’ampia quantità di titoli 18+, salvo poi introdurre linee guida più restrittive in seguito a pressioni esterne, in particolare da parte dei circuiti di pagamento. 

Il risultato è stato una rimozione massiva e spesso improvvisa di giochi per adulti, senza criteri esplicitati e senza un dialogo reale con gli sviluppatori coinvolti.  Steam, in questo senso, non modera i contenuti, ma ne governa la leggibilità culturale selezionando ciò che è considerato accettabile in base a equilibri che poco hanno a che fare con la tutela degli utenti e molto con la stabilità dell’ecosistema. Horses si è trasformato in un espediente di discussione: dimostra che Steam non è un sovrano assoluto nella forma, ma esercita un potere economico, culturale e simbolico sufficiente a determinare chi può esistere sul mercato PC e a quali condizioni. È lo stesso tipo di controllo che il gioco tematizza sul piano narrativo: un potere che non si manifesta come imposizione diretta, ma come sistema normativo invisibile, interiorizzato, secolarizzato e difficilmente contestabile. Immaginate pensare di scardinarlo partendo dal basso.

Bibliografia

 

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