Il presidente con l’elmetto: Trump, il meme presidenziale e la cultura delle immagini

Come un'immagine AI di Trump in armatura Mjolnir ha trasformato il meme in strumento politico

Il presidente con l'elmetto: Trump, il meme presidenziale e la cultura delle immagini

Tre anni fa ci lasciava Hans Belting, uno dei più influenti teorici dell’arte dei tempi moderni. Oltre quarant’anni spesi a riflettere sul rapporto tra raffigurazione e significato intrinseco, sublimati in un corpus didattico oggi più contemporaneo che mai. Nel suo celebre saggio Antropologia delle immagini, circa a metà di una lunga dissertazione sull’iconografia funebre pre rinascimentale, lo studioso tedesco sostiene:

Le immagini sostituivano i corpi dei morti, che avevano perso la loro presenza visibile. In questo modo, i defunti venivano mantenuti presenti e visibili tra i vivi tramite le loro immagini. Ma le immagini non esistono da sole. Hanno bisogno di un’incarnazione, di un agente o di un medium che somigli a un corpo.

L’ultima scialba Pax Romana

Un file JPEG come tanti generato dall’intelligenza artificiale. Donald Trump in armatura Mjolnir, l’iconico casco verde oliva della saga Halo tra le mani, la posa del comandante invincibile. L’immagine, però, non nasce in un server Discord o su un subreddit dedicato allo shitposting. Viene rilanciata, e dunque ipre-diffusa, dai canali ufficiali della Casa Bianca, a corredo di un comunicato che celebrava la presunta “fine della console war” e un imprecisato nuovo equilibrio nel mercato videoludico statunitense. Per qualche ora è sembrato uno scherzo, o almeno una provocazione. Poi GameStop ha immediatamente cavalcato il trend, trasformandolo in materiale promozionale, e accostando il volto di Trump alla figura di Master Chief come simbolo di una presunta unità del gaming. Nel giro di una mattinata, i media finanziari hanno registrato un +7% delle azioni GameStop, attribuito apertamente all’effetto meme amplificato dal nuovo livello istituzionale.

La reazione immediata di GameStop è un riflesso incondizionato. Da anni, l’azienda vive una lenta trasformazione identitaria, trascinandosi in un deserto sempre più arido a colpi di partnership e FunkoPop. Dopo la celebre bolla memetica del 2021, GameStop nelle narrazioni crypto-pop è diventata prima l’emblema della rivolta finanziaria dal basso, poi l’idea che una comunità online possa ribaltare la logica di Wall Street, infine lo specchio di quanto arcaico e manipolabile sia l’ingranaggio finanziario di una compagnia dalle fondamenta scricchiolanti. Negli ultimi mesi, dirigenti e consulenti vicini al marchio hanno cercato di presentare GameStop come un “deposito culturale”, un punto di accumulazione simbolica oltre che economica. La campagna della Casa Bianca ha fatto esattamente il lavoro che GameStop non poteva fare da sola: ha legittimato il meme, spostandolo dallo spazio dell’ironia a quello della rappresentazione istituzionale. Ha trasformato l’immagine in valuta.

Il risultato da sbandierare e dimenticare in qualche ora è l’apparente “fine della console war”.

Non è necessario immaginare una regia coordinata tra Casa Bianca e GameStop. Più realisticamente, si tratta di un caso di mutuo beneficio comunicativo: da un lato, una presidenza che fin dalla campagna elettorale non ha mai smesso di sperimentare linguaggi popolari per raggiungere fasce dell’elettorato che i media tradizionali non intercettano più; dall’altro, un’azienda che ha capito come agganciarsi rapidamente a ciò che diventa simbolo virale, anche solo per poche ore. GameStop, semplicemente, ha visto un’immagine salire di visibilità e ha messo il gomito in mezzo, trasformandola in materiale da spremere per qualche istante, senza troppa premeditazione, né obiettivi a lungo termine. Oggi, in quella echo chamber di X, conviene senza alcun dubbio essere trumpiani.

Il presidente con l’elmetto: Trump, il meme presidenziale e la cultura delle immagini

Perché proprio Halo, perchè proprio ora?

E mentre le piattaforme di informazione si dividevano tra indignazione, analisi e commenti sarcastici, Microsoft ha scelto il silenzio. Nessun comunicato, nessun tweet, nessuna presa di posizione. Questa assenza di reazione, più d'ogni altra cosa, ci dice che non siamo di fronte a un incidente. Siamo davanti a un cambio di linguaggio.

Molti commentatori hanno letto l’assenza di reazione da parte di Microsoft come prudenza. È possibile. Ma c’è un’altra interpretazione, più coerente con l’evoluzione recente dell’industria: Microsoft non ha bisogno di dissociarsi, perché la sua strategia non è più legata al controllo del brand Halo come proprietà estetica, ma alla sua funzione culturale. In un contesto in cui il potere non consiste più nel possedere immagini, ma nel lasciarle circolare, intervenire significherebbe limitare il potenziale stesso del personaggio.

Master Chief vive perché è riutilizzabile. Microsoft non vuole più combattere sul terreno della console war, ma su quello della piattaforma come linguaggio.

È facile, quasi istintivo, trattare la questione come mero folklore digitale: Trump in cosplay da Master Chief, la Casa Bianca che pubblica meme come un qualsiasi account corporate, GameStop che cerca di sopravvivere aggrappandosi all’ultima onda culturale. Ma questa interpretazione non spiega la coerenza dell’operazione. Il memino del giorno, qui, passa da abbellimento comunicativo a strumento.

Negli ultimi anni la comunicazione politica americana ha cominciato a fare uso sistematico di elementi culturali provenienti dai videogiochi. Non piú nel senso ormai familiare di “politico che gioca a Call of Duty su YouTube”. La questione è più sottile: si tratta di attingere a figure simboliche prefabbricate e codificate dall’immaginario collettivo. Non hanno bisogno di essere spiegate, contestualizzate, argomentate. Nella discussione contemporanea, specialmente nei social network più radicali, Master Chief è il combattente ideale. Un’icona costruita per essere priva di ideologia esplicita.

Un contenitore vuoto nel quale ciascuno può proiettare il significato che preferisce.

In altre parole: perfetto per la propaganda.

Il presidente con l’elmetto: Trump, il meme presidenziale e la cultura delle immagini

Vuoto a rendere

Se avessero scelto un figurante Nintendo la reazione sarebbe stata incompatibile: il mondo della grande N nell’occhio mainstream è ancorato alla sfera infantile, comunitaria, lontanissima da ogni scenario militare. Usare un personaggio PlayStation avrebbe molto probabilmente sguinzagliato i mastini legali di Sony.

Halo, invece, identifica una tradizione culturale americana tutt’altro che marginale. Negli anni la saga è diventata un mito fondativo del gaming statunitense post-11 settembre: l’eroe-soldato combatte contro nemici inizialmente indefiniti, seguendo missioni che sembrano inevitabili, immerse in un’epica dove la morale del conflitto resta sottintesa. Chi ha giocato Combat Evolved nei primi Duemila conosce quella sensazione: la missione è data, la guerra sembra inevitabile, l’eroismo nasce dal semplice compimento del dovere. Non è un simbolo imposto da Bungie, ma una scatola da riempire: casco, voce filtrata, anonimato. Tutto ciò che serve per essere reinterpretato senza che nessuno lo abbia delineato in partenza. È proprio questa modularità simbolica a trasformarlo in un veicolo politico ideale per l’immaginario contemporaneo.

E la Casa Bianca lo sa.

La forza dell’immagine non sta nella fedeltà grafica o nei dettagli tecnici, ma nella sua immediatezza: fa coincidere due figure in un significato senza bisogno di spiegazioni, già risolto, dotato di una postura che parla da sé. Per Susan Sontag, scrittrice e filosofa di fine ‘900, un’immagine non si limita a rappresentare un concetto, ma rende possibile pensarlo. Una fotografia (concetto oggi estendibile alle immagini generate con l’AI) è meno un veicolo di contenuto e più un tono emotivo: indica come guardare, come sentire, prima ancora di cosa vedere. L’immagine di Trump in armatura Mjolnir funziona proprio perché non argomenta. Arriva già risolta, già classificata, già dotata di una postura che non necessita di contesto. Master Chief senza casco non porta dentro di sé alcuna intenzione politica, siamo noi, spettatori di oggi, a riversare su di lui le nostre paure, le nostre letture e le nostre ironie postmoderne.

Il presidente con l’elmetto: Trump, il meme presidenziale e la cultura delle immagini

È questo il punto più difficile da accettare.

L’operazione che abbiamo visto non riguarda soltanto Trump, né riguarda Halo, né tantomeno la console war. È la dimostrazione che il linguaggio videoludico è diventato un mezzo politico maturo, operativo, efficace.

Ciò che era nato come un’appropriazione ironica è finalmente divenuto un puro trasferimento di potere iconografico. Il meme non commenta la realtà, la plasma. C’è qualcosa di profondamente rivelatore nel fatto che un’immagine generata probabilmente in pochi minuti, senza alcuna cura estetica particolare, sia stata in grado di produrre un impatto reale sulla percezione pubblica, i mercati finanziari e la mappatura simbolica della comunicazione politica.

Non è un gioco. Non è un incidente.
Non è neppure una trovata bizzarra.

È la cartina tornasole dell’infrastruttura culturale.

La guerra delle console è davvero finita. Non perché Trump abbia dichiarato la pace. È finita perché la guerra non riguarda più le console.

Riguarda le immagini.

E le immagini, oggi, non appartengono più a chi le crea, ma a chi le usa.












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