Ricordando Sergio Leone

30 anni fa ci lasciava Sergio Leone.

E mai come a 30 anni dal quel 30 aprile del 1989 possiamo dire con convinzione che il destino del cinema è stato beffardo con noi. Privandoci, con la scomparsa del regista all'età di 60 anni, di altri capitoli unici ed irripetibili che avrebbero potuto arricchire ulteriormente il nostro immaginario e la storia del cinema.

Per Leone vale lo stesso ragionamento che si può fare con Truffaut, scomparso a 52 anni. Il loro addio alla vita terrena ha significato la fine e l'impossibilità di replicare mondi unici e che solo loro sapevano realizzare, e che avrebbero potuto portare avanti, se non ci fosse stato il fato di mezzo.

Leone era uno di quei registi destinati a diventare "cinematografari". Per storia, per indole familiare, ma non era scritto da nessuna parte che sarebbe diventato l'artista che è stato. E nessuno, a inizio carriera, avrebbe potuto mai pensare che quel giovane assistente di regia sarebbe divenuto (letteralmente) il regista italiano maggiormente capace di influenzare il cinema straniero.

Ricordando Sergio Leone

Dall'Europa all'America, passando per l'Asia e le altre cinematografie. Figlio di Roberto Roberti (un grande del cinema muto), aveva assaporato fin da bambino il cinema tra le sue origini irpine e la sua bonaria romanità piena zeppa di Trastevere e delle scalinata di Viale Glorioso (andateci, proprio dietro il Ministero della Pubblica Istruzione: troverete una targa in suo onore datata 1999).

Subito entra nella macchina dei sogni del cinema: se guardate un manifesto del neorealismo come "Ladri di biciclette" (Vittorio De Sica, 1948) ad un certo punto compare lui come comparsa, seminarista tedesco sotto la pioggia proprio accanto al protagonista Lamberto Maggiorani. Segue la gavetta, perlopiù da assistente alla regia di pellicole umoristiche o con Aldo Fabrizi (e qui ritorna la romanità) al centro della scena.

Poi il destino, appunto: Mario Bonnard non riesce a finire per gravi motivi di salute il suo monumentale "Gli ultimi giorni di Pompei". Sarà il trentenne Leone a concludere l'opera, forte della sua esperienza nel campo delle produzioni (anche quelle di ambientazione antica) della Hollywood sul Tevere di Cinecittà, e della collaborazione in kolossal Usa come "Quo vadis?" di LeRoy o "Ben Hur" di Wyler (tutti film girati a Roma).

E' l'occasione per Leone di emergere come regista: nel 1960 gira il suo primo film da regista "Il colosso di Rodi". Lo spirito è quello del cinema di genere del periodo: andavano forti i peplum e molte maestranze e autori che sarebbero diventati grandi si fanno le ossa con questi film. Leone non sfugge questa ondata, tipica di quando il cinema nostrano era industria. E realizza il suo battesimo di fuoco.

Ma dopo 4 anni già si registrano cambiamenti astrali, mutamenti di segno e di genere. Emerge una voglia matta di realizzare (assurdo!) western di produzione italiana. Nel 1964 esce "Per un pugno di dollari", e la storia del cinema, non sarebbe mai stata più la stessa.

Ricordando Sergio Leone

Leone teme così tanto il progetto che non firma la pellicola. Sceglie il nome di Bob Robertson, in onore degli americani e del nome anglicizzato del padre. Lo stesso Ennio Morricone (ex compagno di classe di Leone che con questo film da' vita ad un sodalizio inossidabile) si firma Leo Nichols. Ma il successo è strepitoso.

Nasce il western all'italiana. Un sottogenere capace di produrre vette eccelse e prodotti di serie C, ma cambia anche l'epopea della quintessenza dei generi Usa: sangue, morti, violenza.

E sopratutto l'antieroe, lo straniero al centro della narrazione.

Clint Eastwood (allora mediocre regista della serialità televisiva "Rawhide") diviene una star mondiale grazie a questo film.

Seguono, completando la "Trilogia del Dollaro", "Per qualche dollaro in più" e "Il buono, il brutto e il cattivo", l'avventura perfetta, gli ultimi 20 minuti più belli e musicali della storia del cinema, il western che abbandona John Ford per inserirsi nei canovacci della tradizione omerica e dei miti greci.

Ormai affermato, Leone lavora ad un nuovo prodotto capace di analizzare il tempo, le generazioni nei confronti del western. Nasce "l'involontaria" "Trilogia del Tempo" in cui il primo capitolo è rappresentato da quel manuale di regia cinematografica che risponde al nome di "C'era una volta il West".

Un cast da urlo (Henry Fonda, Claudia Cardinale, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti che all'ultimo sostituisce Enrico Maria Salerno), macchine da presa che volano fino sopra i tetti delle stazioni ferroviarie, armoniche a bocca e ogni personaggio che ha un proprio motivetto musicale. Sempre ovviamente, per mano di Morricone.

A questo punto Leone vorrebbe fermarsi, lavorare ad una sua idea dell'America, e casomai produrre qualche film (cosa che fece sin dagli anni '70 e non soltanto con Carlo Verdone ma anche con Luigi Comencini, Giuliano Montaldo, il suo ex aiuto regista Tonino Valerii e col corale "Un genio, due compari, un pollo" per la regia di Damiano Damiani).

Ma si ferma su un progetto chiamato "Giù la testa", ideato inizialmente per il cineasta della Nuova Hollywood Peter Bogdanovich (che litigò furiosamente con Leone in merito all'uso dello zoom nel film) il progetto è successivamente portato avanti da Leone su pressione di James Coburn e Rod Steiger.

Ne esce l'opera più politica dell'autore, ma anche quella più amata. La colonna sonora e il motivetto musicale più struggente ("Sean Sean") ma anche l'impianto narrativo meno elaborato e con una crew in formato ridotto (non c'è il direttore della fotografia Delli Colli, per esempio). Un film delle contraddizioni.

Ricordando Sergio Leone

Segue una pausa di 13 anni.

Da venerato maestro si appresa a girare (tra l'Italia e gli Usa) la sua finale e definitiva idea di America: "C'era una volta in America" è un'opera potente, volutamente prolissa e sfacciatamente affastellata tra ricordi e nessi spazio-temporali. Sempre Morricone, con Robert De Niro che suggella la grandezza del maestro.

Ma è un trauma: il produttore statunitense ha la pessima idea di montare per il mercato Usa il film in ordine cronologico. Ne nasce una querelle legale in cui Leone è quasi tentato dall'abbandonare il film privandolo della sua firma. L'opera che più doveva rappresentare la sua idea di cinema, risulterà essere (per colpe altrui) quello che gli causerà il maggior stato di turbamento mentale e fisico.

Negli ultimi anni, riprendeva appunti, cercava la realizzazione di quel kolossal perfetto che i produttori Usa gli avevano negato.

Incontrava Richard Gere a Roma e, sopratutto, si confrontava con amici e biografi su un libro che aveva letto in merito alla battaglia di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale. Pensava ad un lungo piano sequenza di un violinista che vaga per le macerie della città, salvo poi tornare a casa, baciare la moglie, e inquadrare (la macchina da presa) attraverso un lento zoom una finestra della magione con sullo sfondo 10.000 carri armati nazisti.

"A me non piacciono i finali come quelli di Walt Disney" amava ripetere a chi lo intervistava.

Per lui il cinema era principalmente (attraverso una macchina da presa che si muove, un primo piano, e quella musica che rappresentava "almeno il 70% della sceneggiatura") la necessità di fare spettacolo.

Per lui. Ma sopratutto per il pubblico, che a 30 anni di distanza ancora lo ringrazia per i suoi capolavori, per la sua epica e, a suo modo, per averci regalato un universo (purtroppo ormai definito) da cui attingere.