Playing Hard

Negli ultimi mesi l’attenzione dei media di settore si è maggiormente concentrata sulle contraddizioni dell’industria videoludica. Tra aziende che pur avendo bilanci più che positivi licenziano in blocco centinaia di dipendenti e software house impantanate in progetti decennali che portano al tracollo gli sviluppatori, si sta finalmente creando maggiore consapevolezza sulla realtà che dietro la cortina di magia muove il business dei videogiochi.

Playing Hard si inserisce in questo contesto, in un retroscena che difficilmente cogliamo dalla nostra posizione di consumatori. Il documentario, aggiunto recentemente alle offerte Netflix, è uno spaccato di vicissitudini dietro allo sviluppo di For Honor, una delle neonate IP Ubisoft rilasciata nel Febbraio 2017. Il lavoro di Jean-Simon Chartier tuttavia non si concentra sulla creazione del videogioco in quanto tale ma sulla fragilità umana del team che gli sta dando forma, in particolare su tre figure: Jason VandenBerghe creativo dietro all’idea del titolo, Stéphane Cardin, producer e in misura minore su Luc Duchaine, Brand Director. Ognuno di loro vivrà la battaglia del rientrare nei compromessi di budget e scadenze a modo suo e ognuno di loro ne uscirà con cicatrici di diversa entità. Il documentario tuttavia non vuole paragonare le ferite, ma mostrare che tutti hanno perso qualcosa.

> Story Trailer

Ideazione

Jason VandenBerghe lavora nell’industria da 20 anni, ha in mente un gioco da 12. Lungo questo periodo, tutti coloro a cui ha presentato l’idea la respingono. Approda infine nei lidi Ubisoft dove la sua creatura prende forma. “Sua creatura” è un concetto che nella scena occidentale fatica ad essere tollerato, complice una visione sistemica diametralmente opposta a quella giapponese che costruisce intorno ai suoi designer di spicco identità forti, con un proprio centro gravitazionale. Eppure viene difficile non identificarla come tale. Il cortocircuito avviene nella fascia alta delle produzioni tripla A, dove le figure in gioco per la realizzazione di un titolo arrivano a contare centinaia di persone, diluendo al suo interno il valore dell’autorialità.

Il caso di Jason in tal senso è esemplare, il suo ruolo si conclude a poche settimane dal lancio del titolo, e viene progressivamente allontanato man mano che il videogioco come prodotto assume consistenza. Jason conosce già i termini di scadenza quando davanti alle telecamere e negli eventi promozionali sorride fingendo spensieratezza. Se accettiamo questi comportamenti come prassi cadiamo nel tranello di legittimare una procedura che tradisce le basi di un sano processo creativo. Alla base dell’allontanamento di Jason del progetto ci sono divergenze sulla visione creativa: la produzione, come vedremo più avanti, sta sacrificando elementi ritenuti dall’ideatore preziosi. Smettono di ascoltarlo.

Come affermerà anche lui nel documentario, vaga tra le scrivanie senza meta, de facto ignorato. Quello che è necessario per lettura corretta dei fatti sono elementi umani che scivolano tra gli ingranaggi dell’industriosità perdendosi nel silenzio. Nel caso di Jason occorre leggere gli eventi inquadrati alla luce di un legame profondo con l’opera. Dodici anni per un creativo sono un’eternità, il tempo sufficiente per far diventare un’idea, un’ossessione e un’ossessione, verità. Quando in dodici anni hai poi una sola occasione di raccontare tutto quello che hai dentro difficilmente la razionalità ha la meglio sull’espressione. Nella fascia dei tripla A dove ad avere maggiore potere contrattuale sono i capitali e non l’idea, sembra che non ci sia spazio per valorizzare questo genere di sentimenti.

>

Realizzazione

Stéphane Cardin è a capo di un piccolo team che attende di potersi mettere in gioco con una nuovo progetto. Quando incontrerà l’idea di Jason il team toccherà le 500 persone. Tutte queste persone risponderanno per tutto il periodo di sviluppo a Stéphane. Lui è il punto di incontro tra i creativi alle sue dipendenze e i capi dei piani alti, tra lavoro eseguito e capitali investiti. Il peso delle sue scelte comporta delle conseguenze devastanti. Due mesi prima dell’uscita di For Honor, Stéphane va in burnout e sparisce per due mesi, in ritiro per ricomporre mente e corpo. Lui, nell’economia del racconto ti Playing Hard è la quintessenza di tutto quello che c’è di sbagliato ai livelli più alti dell’industria.

Sebbene il documentario non mostri apertamente le dinamiche interne degli studios di Montreal è evidente la produzione attraversi un’importante fase di crunch, con tempi di lavoro irregolari e un investimento psicofisico collettivo culminante nei crolli tra i quali rientra anche quello di Stéphane. Recentemente il caso Anthem ha sollevato una questione morale su queste dinamiche, ampiamente diffusesi all’aumentare degli investimenti dedicati allo sviluppo. La crescita ipertrofica delle produzioni tripla A sta portando le condizioni di rischio a livelli insostenibili, incompatibili per definizione con il concetto di processo creativo. Crolli nervosi, alienazione e perdita di interesse del proprio operato, effetti collaterali di una realtà che presto o tardi dovrà riconfigurarsi se non vorrà soccombere sotto il peso dei suoi eccessi.

Playing Hard

Promozione

Per Luc Duchain, Brand Director, For Honor è la prima occasione di creare un nuovo brand e per un buon periodo durante gli sviluppi avvertirà la distanza che separa le sue richieste dagli intenti aziendali. Ho avuto il piacere di incontrarlo di persona l’anno scorso durante la GamesCom e quando ha presentato il nuovo DLC Marching Fire era solare ed entusiasta. Qualche settimana dopo sarebbe apparso nel documentario, distribuito in Canada il 25 Settembre. Nel documentario Luc è uno dei risultati delle dinamiche fallate che cancellano ideatori e piegano sviluppatori. Il suo lavoro all’interno di For Honor è quello di promuovere il brand al meglio.

Potrà dire di aver permesso al titolo di vendere oltre tre milioni di copie nei primi 10 giorni dall’uscita. Ma a che prezzo? Luc è un tipo differente di vittima del crunch-time, i suoi sintomi non sono percepibili finché non cede apertamente come accaduto con Stéphane. Luc quando è stressato mangia. Il sovrappeso gli crea difficoltà respiratorie che lo costringono a dormire collegato a un dispositivo di ausilio per una corretta ventilazione. Teme per il cuore. I suoi figli avvertono gli effetti dell’overworking tanto quanto lui e chiedono di non partire. Tutte criticità già sentite, in qualunque settore del lavoro, ma non per questo tollerabili. Anzi, il problema di fondo è proprio questo aver già sentito queste cose, di aver sviluppato una certa insensibilità di fronte alle storture del sistema.

Ci sono dunque tre uomini, tra di loro chi ha perso un’idea di una vita e chi ha perso il senno. Chi se ne è andato lasciando dietro di sé un pezzo di anima, chi è rimasto ma ha subito la stessa perdita. Nel racconto c’è però una quarta persona che perde, noi consumatori finali, che subiamo le condizioni di un ambiente che permette poche opzioni e tutte troppo drastiche. Casi come quello di For Honor ci portano istantaneamente di fronte a un dilemma manicheo: comprare o non comprare, sostenere il sacrificio di centinaia di persone ma legittimare pratiche scorrette, o rifiutarle e vanificare lo sforzo creativo di chi ha creduto in un’idea. Non esiste una scelta moderata e questo è quello che abbiamo perso come giocatori. Che ne sarà del prossimo futuro è un’incognita, fino a quel momento, tuttavia, è bene dare voce a questo presente di contraddizioni.