Pluribus si prende tutti i rischi possibili pur di essere la grande serie che è
Dopo Breaking Bad e Better Call Saul Vince Gilligan si mette alla prova con una serie che regala un'esperienza di visione rara.

In un’intervista rilasciata durante la promozione di Pluribus, il suo creatore e showrunner Vince Gilligan ha dichiarato che ogni generazione merita le sue storie da amare e portare con sé e non gli aggiornamenti di quelle dei propri padri e nonni. Questo per spiegare perché avesse scelto di puntare su una nuova idea di stampo fantascientifico invece di tornare nel mondo di Breaking Bad, creando qualcosa di adiacente o similare per toni e genere.
Lui e AppleTV si sono presi un rischio enorme, che sin dal pilota si rimostra remunerativo: Pluribus è sicuramente una grande serie, tra le più memorabili viste quest’anno. Per sua natura, non potrebbe essere altrimenti, essendo una delle esperienze di visione più radicali sulle piattaforme mainstream. Guardare i primi due episodi di Pluribus (gli unici disponibili, al momento) regala davvero un’esperienza unica; un aggettivo che spesso si spende per prodotti che hanno appena una traccia di originalità rispetto al panorama culturale in cui s’inseriscono con agio.

Cosa rende Pluribus così diversa dal resto delle serie in circolazione?
Pluribus invece è un’unicità rarissima e per questo spesso sconcertante, esattamente come la sua protagonista. Non sono però certa che vista nel suo complesso sarà “bella” in senso lato, o forse in senso facile, perché stare seduti sul divano a guardala è un esercizio non sempre piacevole e che comporta un gran ruminare di meningi. Pluribus richiede un porsi continuamente domande mentre Vince Gilligan mette in chiaro che una risposta certa ma soprattutto giusta proprio non c’è e convivere con quest’incertezza morale. Non è una serie di svago o intrattenimento, pur essendo qua e là cinicamente divertente.
La premessa, come dichiarato esplicitamente nella serie, è una sorta d’invasione aliena alla Invasione degli ultra corpi, ma molto sui generis. Un po’ perché invasione meriterebbe le virgolette, un po’ perché l’apocalisse successiva sembra tra le più ordinate, pacifiche e utopiche mai viste su schermo. Pluribus si prende l’intero pilota - che è una sorta di film autoconclusivo nella serie - per impostare il suo Nuovo Mondo e cominciarlo ad esplorare poco a poco.
Rhea Seehorn interpreta Carol, che abita questa nuova realtà, deve dialogarci ma allo stesso tempo ne è esclusa, almeno per il momento. È il suo il punto di vista attraverso cui esploriamo la nuova realtà e, come sempre capita con Gilligan, a potenziare la forza di un’idea di base già notevole c’è il filtro umano attraverso cui viene indagata. Carol viene definita come “l’essere umano più miserabile del mondo”: è arrabbiata e depressa ben prima che si scateni la fine del mondo, pur avendo un lavoro sicuro e di successo, una quantità di persone che le ama e l’ammira da lontano e qualcuno vicino che la capisce, si prende cura di lei vibra sulla sua stessa frequenza cinica.

Essere felici è la prova che si è esseri umani migliori?
Carol non è una persona felice ma prima dell’evento scatenante è una donna che funziona a livello sociale: in pubblico riesce perfettamente a mantenere una maschera di gentilezza e cordialità, rimediando alla mancanza di pragmatismo o agli eccessi altrui. Dopo invece ha a che fare con crisi di rabbia dagli effetti catastrofici, che a ben vedere non sono violente o così estreme, ma uno dei primi imperativi morali della serie è che debba evitare di averne a qualunque costo.
Perché quello di Pluribus è un continuo, incessante discorso sulla libertà: in teoria non c’è niente di male ad arrabbiarsi, ma la ricaduta sugli altri dovrebbe farci trattenere dall’esprimerlo, specie se l’impatto è esponenziale tanto quanto nella serie. Però non è una forzatura, una crudeltà tenere una persona depressa, afflitta da un lutto gravissimo e che sta vivendo una situazione profondamente traumatica sotto il giogo di non poter sfogare la sua rabbia?
Pluribus è un’infinita serie di interrogativi simili, in una storia che non traccia mai una riga nell’ampissimo panorama narrativo che pian piano esplora tra ciò che giusto e ciò che è sbagliato, quanto piuttosto mostra allo spettatore quanto sia difficile farlo e quanto sia angosciante convivere con le proprie decisioni.
L’esperienza di Carol è profondamente unica perché è soprattutto caratterizzata dalla solitudine: la serie è stata scritta per Rhea Seehorn, è plasmata dalla sua interpretazione e si poggia interamente sulle sue spalle. Per lunghi tratti in scena c’è praticamente solo lei, con le sue emozioni. Carol è una persona non facile, sgradevole, ma sempre in equilibrio tra l’essere orribile e essere quella persona che rifiuta le soluzioni facili. Nel secondo episodio, per esempio, chiede d’incontrare quanti sono nella sua stessa situazione. In apparenza la protagonista è una squilibrata: gli altri sembrano aver già accettato la situazione e averne ricavato una certa serenità. Bianca, americana, arrogante e spesso superficiale, Carol a confronto appare paranoica, offensiva, guastafeste. Tratta male una donna che ha molti motivi per detestarla e un uomo che sembra volerle fare vedere il lato positivo della situazione: tuttavia ciò che dice evidenzia come i due affrontino con la situazione ignorandone volutamente le ricadute più scomode, dolorose. Nessuno dei due fronti ha ragione o torto, ma solo Carol guarda dentro fino in fondo alle sue scelte.

C’è anche un terzo fronte, che rende possibile questa lunga riflessione tra l’estremo individualismo e l’estremo collettivismo, tra capitalismo e socialismo, tra prospettiva occidentale e resto del mondo, tra Stati Uniti e non-Stati Uniti. Un fronte che per impostazione è privo di malevolenza o malizia intenzionale, ma risponde a imperativi biologici che sono l’estrema negazione della libertà individuale. È il benessere collettivo che spesso sfocia nella logica dell’alveare, ma che è un potente interrogativo posto alla prospettiva singola di Carol e dello spettatore. Se l’esistenza della donna è caratterizzata dall’infelicità, il suo individualismo non è un errore? Non sarà invece ingenuo presupporre che la libertà sia facile da gestire e priva di pesi, contraccolpi e responsabilità con cui convivere ogni volta che la si esercita?
Pluribus finisce ben dopo aver spento lo schermo
Pluribus finisce ben dopo aver spento lo schermo, lasciando al suo pubblico una serie infinita di domande e valutazioni personali da fare. È un’esperienza di visione impagabile perché toglie completamente le certezze da sotto i piedi: non solo la premessa è originale, ma ogni qual volta ricorre a un topos del genere fantascientifico, apocalittico, distopico, lo spinge in una direzione inaspettata, vedi proprio l’incontro di Carol con gli altri “sopravvissuti”. È una visione che però rischia di essere un deterrente per quei spettatori che vivono questa imprevedibilità come negativa: si guarda Pluribus per farsi domande, non per sentirsi confermare le proprie risposte.
Partendo da un'idea forte e con un approccio tanto “radicale” (quantomeno per il panorama seriale odierno) Pluribus fa delle scelte poco concilianti: il ritmo è molto lento, c’è proprio uno specifico respiro della serie che tiene il conto del passare del tempo con un apposito contatore. La scrittura non ne sfrutta il fluire con logiche televisive classiche. Non ogni momento è riempito di eventi, perché la serie lascia il tempo alla protagonista e al pubblico di ragionare con lei, di prendere le sue scelte, ancorché distruttive, senza quella logica rifinita propria dell’economia narrativa televisiva.
Nazione: Stati Uniti d'America

Pluribus
Questa recensione non ha una votazione finale perché si basa sulla visione dei primi due episodi della prima stagione, composta da un totale di nove puntate: le ultime due sono state tenute segrete a tutta la stampa, quindi non c’è modo di sapere esattamente se e come al serie riesca ad atterrare la lunga premessa. Dato quanto visto nelle prime due ore di Pluribus - con una produzione al solito davvero eccellente e più di AppleTV e una regia elegante, efficace e molto cinematografica di Gilligan - vale sicuramente la pena provarci, ricordandosi però che richiede un minimo d’impegno e un approccio pronto al dubbio, allo sconcerto e anche all’arrabbiatura. Se si è in vena di venire rassicurati o si ha voglia di divertirsi senza angosce esistenziali, meglio rimandare la visione a un altro momento.


