Non lasciarmi cadere: la serie svedese di Netflix che lancia un allarme sociale

Una toccante serie con un cast praticamente perfetto

di Chiara Poli

Le famigerate baby gang, come le chiamiamo qui in Italia con un inadatto vezzeggiativo, sono al centro di questa miniserie svedese di Netflix che lascia il segno.

Ragazzini, figli di immigrati o svedesi da generazioni, finiscono per ragioni diverse coinvolti negli stessi traffici illeciti. Spaccio, perlopiù. Ma anche rapine e omicidi. Crimini legati a ragazzi più grandi che hanno già una vasta esperienza criminale e “formano” i nuovi delinquenti arruolandoli fra i giovanissimi. Ma restano, appunto, solo ragazzi. Perché cercano affiliati sempre più giovani? Facile: perché sono spesso insospettabili. Ma soprattutto non punibili dalla legge. Non come un maggiorenne, almeno. Regola che vale per quasi tutto il mondo. Certamente per la Svezia, Paese che racconta una realtà scomoda e spaventosa di cui la sua società conosce fin troppo bene i dettagli grazie ai fatti di cronaca.

La trama di Non lasciarmi cadere


Bilal “Billy” Ali (Yasir Hassan) e il suo amico Douglas “Dogge” Arnfeldt (Olle Strand) sono sempre stati molto legati. Ma quando Billy viene trovato in punto di morte, con una ferita alla testa, sotto gli occhi sconvolti di Dogge, tutto cambia. La loro amicizia, le loro cattive frequentazioni, il giro della criminalità minorile gestito da ragazzi poco più grandi, quasi tutti di origine straniera, ci raccontano la drammatica storia di una società che cerca di difendere i ragazzini dal crimine e di difendersi dagli atti criminali compiuti da quegli stessi ragazzini.

Dogge finisce in una comunità per minori, ma nemmeno lì è protetto. Mentre la famiglia di Billy ripercorre i fatti che l’avevano portato a entrare nel giro, a coinvolgere Dogge e a mettere in pericolo tutti quelli che conosce, a cominciare dal suo fratellino Tusse (Mohamed Abdirahman Koje). L’aiuto di Farid (Ardalan Esmaili), poliziotti che cerca di proteggere i ragazzini che conosce fin da quando sono piccolissimi, non basta. In un drammatico racconto di violenza e soprusi incui uno dei responsabili, Mehdi (Solomon Njie) è appena un ragazzo anche lui.

Non lasciarmi cadere: un dramma avvincente che fa riflettere e lancia un allarme sociale


Un ragazzino, che scopriremo avere 14 anni, giace a faccia in giù nella neve. Poco distante, un suo coetaneo lo guarda, tremando. E con una pistola in mano.

Quella pistola non verrà trovata dalla polizia, che lo stesso ragazzino tremante ha chiamato. Lui si chiama Dogge, quello in terra è Billy, il suo migliore amico.

Mentre le rispettive madri vengono informate, ci troviamo di fronte a una storia in cui i giovanissimi vengono coinvolti in traffici illegali, come spacciatori o come pali per avvisare gli altri in caso arrivasse la polizia. Le cosiddette sentinelle. Le indagini per ricostruire quanto è accaduto saranno lunghe e complesse, e stravolgeranno la vita di tante famiglie. Scuotendo la coscienza di un poliziotto, Farid, che di fronte all’ennesima tragedia si sente impotente e perde il controllo.

Non lasciarmi cadere è una serie che ti tiene incollato allo schermo. Che ti prende a schiaffi, continuamente. Con una colonna sonora incisiva e il dramma dei soldati bambini trasferito d’ufficio nelle città europee, solo che sono sono soldati ma pedine di criminali senza scrupoli.

L’allarme sociale lanciato da Non lasciarmi cadere non si può ignorare: siamo di fronte a una generazione rubata, sottratta agli anni più spensierati della vita da coetanei o individui poco più grandi pronti a tentarli. Soldi facili, riscatto sociale, gente che abbassa lo sguardo quando passi perché ha paura di te.

Con queste semplici armi, in un contesto di emarginazione o di semplice incapacità o impossibilità dei genitori di controllare i propri figli, il crimine organizzato (perché questo è: crimine organizzato, inutile girarci intorno) prospera sulla pelle degli innocenti trasformati in violenti, in ladri, in killer.

Una madre sola con quattro figli, immigrata. Una madre svedese, nata e cresciuta a Stoccolma, nel luogo in cui suo figlio verrà portato via dalla polizia. Una sparatoria fra ragazzini, il sottotesto della criminalità minorile legata a bande di giovanissimi delinquenti che lavorano per boss locali.

Un agente di polizia che conosce questi ragazzini fin da quando avevano sette anni. Un giovane criminale che ripete, come se l’avessero addestrato a farlo:

Sono un bambino, non potete mettermi in prigione.

Quella cultura criminale che conquista i più giovani


Bambini, o poco più. Non hanno paura di niente, sfidano le autorità, sanno che resteranno perlopiù impuniti. Sono spavaldi, arroganti, sicuri di sé. Convinti di avere il mondo a portata di mano. Esaltati da una cultura criminale in cui vengono abituati a prendersi ciò che vogliono. Ogni volta che vogliono.

C’è un momento musicale che chiarisce in modo inequivocabile quale sia il fascino che questi criminali esercitano sui ragazzini e come facciano a portarli dalla loro parte. Spesso fanno provare loro le cose che vendono, rendendoli di fatto dei tossicodipendenti in erba senza che nemmeno se ne rendano conto. Li fanno sentire grandi e potenti, forti e rispettati. Fino a quando cadono.

Non lasciarmi cadere è una serie toccante, drammatica, fin troppo verosimile e da un certo punto di vista spaventosa. Perché tratta in modo esplicito un tema tanto attuale quanto difficile, quello della criminalità minorile.

In una società in cui i ragazzini con situazioni disagiate cercano la via più facile e veloce per prendersi ciò che vogliono, anche il dolore - o la noia, o l’indifferenza - che serpeggia nelle altre famiglie si sparge come un virus contagiosissimo. Le amicizie, con i compagni di scuola fin dall’infanzia, sono il mezzo più comune per la diffusione di questo virus. Crescere insieme significa far sì che si finisca per credere nelle stesse cose, a prescindere dalle idee di partenza.

Si vestono con abiti sportivi ma griffati, voglio vivere nel lusso e indossano orologi costosi. Danno in mano a dei bambini - perché questo sono, di fatto, i più giovani in questa catena criminale gestita da ragazzi - armi letali. Indossano catene d’oro e girano sempre pronti a uccidere. La cosa più terrificante è che lo fanno - uccidere - con una leggerezza e un’indifferenza agghiaccianti. E quando sono loro a finire dalla parte delle vittime, distruggono anche le vite di chi cerca di difendersi e perde il controllo, finendo per prendersela con bambini, rovinandosi la vita.

È come un cane che si morde la coda: un loop infinito di crimine, disperazione, paura. In una comunità in cui anche i poliziotti conoscono questi ragazzi fin da quando sono piccoli, perché anche i poliziotti a volte hanno le stesse origini, ma prendono decisioni diverse. Tutto ruota attorno alle decisioni. Decisioni prese da persone troppo giovani e impulsive. Decisioni vissute come condanne, o prove di coraggio, o test per entrare a far parte di una vita che da fuori sembra bellissima. Agiata, libera, potente. Da fuori, però.

La storia di Billy e Dogge è la storia di due criminali in erba come tanti, che ancora prima di avere l’età per iniziare a fare ciò che loro hanno già finito cercando di cambiare strada. Senza riuscirci. Perché basta un secondo, uno solo, con la decisione sbagliata per entrare in un tunnel senza uscita.