La mia prediletta - Recensione della miniserie Netflix

La mia prediletta, tratta dall'omonimo best-seller, arriva su Netflix con una miniserie che adotta un punto di vista prezioso

La mia prediletta  Recensione della miniserie Netflix

La mia prediletta - in originale Liebes Kind - è una miniserie tedesca in 6 episodi. Tratta dall’omonimo romanzo di Romy Hausmann, racconta la storia di una donna rapita e tenuta prigioniera da qualcuno che la costringe a fingere di essere un’altra, madre di due bambini e vittima di continui abusi.

Il romanzo d’esordio della Hausmann, uscito nel 2020, è rimasto per mesi in testa alle classifiche tedesche e Netflix l’ha opzionato, inizialmente con l’idea di trarne un film. Ma il materiale e gli approcci narrativi erano così vasti che ne è uscita una miniserie di 6 ore.

La casa degli orrori: una riflessione ispirata a drammatiche storie vere

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Se avete letto 3096 giorni, il libro in cui l’austriaca Natascha Kampusch racconta il suo rapimento, la convivenza con l’aguzzino e la liberazione dopo 8 anni, non potrete evitare di correre con la mente a questa e a tante altre storie drammaticamente vere, vedendo La mia prediletta.

Ed è proprio questo il punto di forza della miniserie: il costringere lo spettatore a guardare in modo imparziale le vittime di abusi, che spesso l’opinione pubblica giudica frettolosamente come complici. Anzi, ad adottare addirittura il loro punto di vista.

Quando una donna che corrisponde alla descrizione di Lena Beck, scomparsa 13 anni prima, viene ricoverata in seguito a un incidente, il poliziotto (e amico di Lena e della famiglia) che indagava sul caso spera di aver ritrovato Lena. Ma la donna che giace in quel letto, la cui figlioletta mostra atteggiamenti molto inconsueti, non è Lena. Eppure, dice di chiamarsi così

La mia prediletta vanta un ottimo cast, a cominciare dalla protagonista Kim Riedle (Back for Good) e dalla piccola Naila Schuberth, interprete di Hannah, la cui naturalezza è davvero impressionante.

Tutto ruota attorno al mistero di Lena, all’identità di quella donna che afferma di essere lei, ai flashback sulla prigionia fino alla fuga e all’incidente: i conti sembrano non tornare, finché il caso diventa sempre più complesso e arriva a coinvolgere diverse persone. Inclusa Lena.

La scelta di affidare alla piccola Hannah uno dei ruoli più importanti per la narrazione rimanda alla volontà degli autori di seguire la strada indicata da Romy Hausmann: provare a mostrarci il mondo attraverso gli occhi di chi ha vissuto sempre e solo in un modo, credendo che fosse normale.

Quando un caso come quello immaginato da La mia prediletta arriva su tutti i giornali, spesso la gente finisce per scagliarsi contro le vittime di rapimento perché, magari, secondo l’opinione comune non hanno colto tante occasioni di fuggire. La realtà è sempre più complessa della fiction e La mia prediletta vuole che il nostro sguardo finisca proprio lì: dalla parte delle vittime. Per smettere, una volta per tutte, di considerarle complici.

Condizionamento

La mia prediletta - Recensione della miniserie Netflix

Quando ti ripetono fino alla nausea le regole da rispettare per restare viva, l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Ti affezioni ai tuoi compagni di prigionia e perdi presto il contatto con la realtà, tanto da iniziare a dubitare perfino della tua stessa identità.

E quando riesci a fuggire, il mondo che ti aspetta fuori non è accogliente e comprensivo come te l’eri immaginato. Mai. Nemmeno se sei solo una bambina.

La mia prediletta conduce la narrazione portando avanti la storia per farci scoprire cos’è successo a Lena e alla donna in ospedale, alla bambina che è con lei e al bimbo che è rimasto solo. Gli episodi seguono le indagini della polizia, il lavoro degli assistenti sociali, il dramma dei genitori di Lena e di tutte le persone coinvolte in un dramma risalente a 13 anni prima.

Al tempo stesso, però, ci indica una chiara chiave di lettura, concentrandosi sulla difficoltà di reinserire nel mondo chi ha vissuto un lungo periodo di tempo - o addirittura tutta la propria vita - in una situazione di costrizione, prigionia e abusi. Il condizionamento subito dalle vittime diventa il punto di vista corretto per interpretare il racconto, portandoci istintivamente a non dubitare mai delle motivazioni che spingono le vittime a prendere certe decisioni.

In buona sostanza, La mia prediletta rappresenta una riflessione rivolta ai media, presenti nei personaggi dei giornalisti che danno il tormento alla famiglia di Lena, rubano foto proibite e creano titoloni a effetto infischiandosene degli effetti sulle vittime. Ma anche lettori e spettatori vengono invitati a considerare il punto di vista delle vittime e la difficoltà di rapportarsi a un mondo “normale” che esse non hanno mai conosciuto o da cui sono state a lungo isolate.

Il condizionamento subito dalle vittime di abusi è talmente forte da trasformarsi in una voce interiore che non tace mai,  che indirizza tutte le azioni di chi è stato costretto ad ascoltare quella voce ora interiorizzata e che deve trovare il proprio personalissimo modo di farla tacere.

Chi, perché, quando

La mia prediletta - Recensione della miniserie Netflix

Come ogni giallo che si rispetti, anche La mia prediletta segue tutte le tappe classiche delle indagini condotte dalla polizia, vagliando ogni ipotesi e cambiando direzione in base alle prove raccolte.

Ma La mia prediletta è molto più di una storia in cui vogliamo scoprire chi è il colpevole, perché ha agito così, quando e per quanto tempo: tutte queste risposte arrivano, ma lo fanno in maniera a volte addirittura semplicistica.

Una foto di famiglia basta a spiegare la motivazione, tutto il resto corre dietro a quel disturbo che ha generato un mostro.

La risposta alle classiche domande del giallo, e il tradizionale meccanismo del whodunit, passano in secondo piano fin dai primi istanti. Ciò che Hannah racconta alla polizia e all’infermiera che si prende cura di lei squarcia il velo su un orrore profondo, complesso e articolato. Su qualcosa che una mente malata ha messo in piedi con tanta cura da farlo diventare reale, addirittura desiderabile perfino per una bambina sveglia come Hannah.

Sul confine fra fantasia, immaginazione ed esperienze reali, La mia prediletta ci prende per mano e ci porta alla scoperta di una storia che vogliamo vedere tutta d’un fiato, ma non tanto per scoprire chi, perché e quando, quanto per sapere cosa ne sarà delle vittime. Se riusciranno mai a liberarsi di quella voce.

Ecco perché la miniserie è così riuscita: che il pubblico ne sia consapevole o meno, viene coinvolto in un gioco delle parti che costringe a chiedersi quale sarebbe stata la reazione se le vittime fossimo state noi, ma soprattutto cosa potremmo fare per aiutarle a reintrodursi nel mondo reale. Quello grande, bellissimo e terrificante che aspetta le vittime di rapimento e isolamento per restituirle a una vita tutt’altro che facile da ricostruire.

7

Voto

Redazione

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La mia prediletta - Recensione della miniserie Netflix

La mia prediletta è un giallo riuscito, che spinge lo spettatore a seguire la storia fino in fondo per avere le risposte classiche del genere (chi è stato, quando, perché) ma soprattutto a guardare con compassione, partecipazione ed empatia le vittime di quella stessa storia.

Ispirata a orrori che la cronaca ci ha più volte presentato - basti pensare al rapimento di Natascha Kampusch a soli 10 anni - La mia prediletta, tratta dall’omonimo best-seller di Romy Hausmann, ci spinge a interrogarci su come si possono aiutare le vittime, come si può dar loro fiducia, perché è necessario provare a guardare il mondo coi loro occhi per evitare di diventare i giudici superficiali che la cronaca stessa ci spinge spesso a essere.

Sei episodi che volano via, uno dietro l’altro, mentre i retroscena della storia di una misteriosa donna di nome Lena emergono dal passato, coinvolgendo il presente e spaventandoci all’idea di un futuro buio.

Siamo spettatori delle azioni di un mostro, ma siamo anche invitati a prendere le parti delle vittime senza pregiudizi, senza semplificazioni, senza paura di provare, per una volta, a pensare che la prigionia non finisce quando si è fisicamente liberi… Nella speranza che questo ci porti a diventare esseri umani migliori, pronti a solidarizzare sempre con le vittime, anche nelle situazioni più complesse.