Dept. Q vorrebbe essere lo Slow Horses di casa Netflix e ci riesce benissimo: la recensione della serie
Dept. Q è una delle migliori aggiunte al catalogo estivo di Netflix, che è finalmente riuscita a trovare il suo Slow Horses.

Ci sono due strade per arrivare a Dept. Q, la nuova serie targata Netflix che sta silenziosamente scalando le classifiche settimanali di visione. La prima è quella usuale, ovvero vederselo servito dall’algoritmo nella schermata di benvenuto del servizio, sentirne parlare dal collega in ufficio o magari aver letto i romanzi dello scrittore danese Jussi Adler-Olsen da cui la serie è tratta e adattata (immaginate la gioia di un piccolo editore come Marsilio che lo pubblica da anni in Italia e ora si ritrova per le mani un traino simile). La seconda passa dalla stampa, che ha accolto positivamente la serie, insistendo molto sul paragone con Slow Horses.
Un paragone che, per una volta, non è campato per aria o volto ad acchiappare click dei fan in crisi d'astinenza. Perché sì, Dept. Q è chiaramente il tentativo di Netflix di fornire ai suoi utenti qualcosa di simile a quello che ha reso la serie con protagonista Gary Oldman una delle hit del servizio Apple TV+, la cui popolarità aumenta stagione dopo stagione. Non che lo stereotipo dell’investigatore molto acuto dalle maniere brusche e con un’attitudine tra il depresso e il misantropo sia un concetto inedito, da Sherlock Holmes in giù. Tuttavia sono proprio le premesse di Dept. Q a tracciare più di un parallelo con le vicende delle spie brocche del Pantano.
Dept Q ricorda molto Slow Horses (ed è un complimento)
Anche qui per esempio al centro della storia c’è il dipartimento meno prestigioso di un grande organismo burocratico che cerca di nasconderlo sotto il tappeto: la nascente unità dedicata a risolvere cold case viene senza tante cerimonie esiliata nel piano sotterraneo della centrale di polizia in quello che un tempo era il locale docce, con ancora gli orinatori in bella vista, senza nemmeno la luce del sole.
A presiedere lo stesso, fondato per volontà di una dirigenza alla ricerca di uno stunt pubblicitario per le pubbliche relazioni, c’è Carl Morck, un poliziotto appena rientrato dal lavoro da una sparatoria che è costata al partner di sempre la capacità di camminare, a un poliziotto di quartiere la vita e al protagonista un trauma che lo porta spesso ad avere reazioni violente in chiave verbale o fisica, oltre che a non essere esattamente l’anima della festa. Incastrato dalla capa ambiziosa e tosta dell’ufficio a una scrivania con una montagna di casi insoluti tra cui scegliere - quando invece vorrebbe trovare l’uomo che l’ha quasi ucciso in prima persona su cui indagano dei colleghi incompetenti - Carl si ritrova affiancato da una collega ciarliera che non può ancora tornare in servizio attivo per un incidente di cui è stata protagonista e un civile, un esperto informatico e richiedente asilo dalla Siria, che ha un passato da ex poliziotto e si rivela molto meno inoffensivo di quel che sembra.
Così come in Slow Horses, c’è un singolo caso molto intricato da risolvere al centro della stagione, a cui lo showrunner e regista Scott Frank dedica molto minutaggio. È una scommessa vinta: il personaggio della vittima Merritt Lingard (interpretata da un’intensa Chloe Pirrie) è abrasivo e spigoloso quanto un Matthew Goode mai così disperato, barbuto e trascurato come nei panni di Carl Morck. Il mistero al centro della prima stagione è abbastanza complesso e ben orchestrato da mantenere la tensione per tutti e nove gli episodi che la compongono, con quella che diventa nei fatti una duplice investigazione: nei flashback in quanto avvocato nell’accusa con un passato burrascoso Merritt si rivalutare tutta la sua vita per tentare di scoprire l’identità dello stalker che la perseguita, mentre nel presente Carl e il suo scalcagnato team di assistenti (l’ex partner di lavoro con spiccate tendenze suicide, l’ex torturatore siriano e l’assistente dalla tenuta mentale incerta) smontano la precedente investigazione e la vita della scomparsa, alla ricerca di possibili piste.
Dept Q è deliziosamente scozzese, depressa e un po' scorretta
Dall’originaria Danimarca la serie - una produzione inglese di Left Bank Pictures e da Sony Pictures Television - viene spostata in una Edimburgo dove i quartieri difficili di alternano alle lotte di potere tra nobili e affaristi. Gl amanti della pungente ironia scozzese si preparino a una notevole densità di personaggi depressi e sull’orlo del crollo nervoso, ma sempre con la battuta pronta, in equilibrio perfetto tra fatalismo e crudeltà, per farci godere di quell’atmosfera tipicamente, deliziosamente scorretta propria del Regno Unito. La produzione poi, esterna a Netflix, spicca immediatamente per la ricercatezza con cui fotografa e ricostruisce interni ed esterni. Era da tempo che non si vedeva una fotografia così leggibile sulla piattaforma. Netflix e gli altri servizi di streaming tendono a essere molto refrattari ad acquisire serie prodotte da terzi, ma in questo caso (come in quello di Slow Horses) questo modello produttivo prova che affidarsi a parti terze può essere la soluzione ideale allo sviluppo di una hit potenzialmente molto longeva.
A funzionare di Dept. Q è la cura con cui tutto è impacchettato: il regista e showrunner di The Queen Gambit ha del buon materiale di partenza che adatta e dirige con personalità e precisione, il casting a partire da Matthew Goode (un ex compagno di scuola di recitazione di Benedict Cumberbatch che non è mai veramente esploso ma che ha una solidissima carriera alle spalle) è quel mix intrigante di facce non note e fuori dal quell’uniformante e noioso metro estetico. Al dipartimento di polizia non sono tutti belli in modo convenzionale, non li abbiamo già visti da qualche parte, perciò è più facile immergersi nella storia, scoprire i personaggi dietro volti diversi dal solito, affascinanti. Le case dei poliziotti, le scrivanie degli uffici, le abitazioni degli indiziati sanno di vissuto, di disordine e di uno strato polveroso che, insieme al cielo plumbeo di Edimburgo, creano una giusta atmosfera da crime inglese.
A tenere poi incollati allo schermo c’è il lento disvelamento del passato di Carl e degli altri, il motivo per cui lui è così sgradevole e aggressivo, che si riflette nella personalità pungente e ricca di misteri della donna su cui indaga. Siamo comunque molto lontani dalle punte di genio di Mick Herron e della serie Apple TV+: già il fatto che ci sia un motivo per cui Carl fa lo stronzo (ma forse non lo è per davvero) segna il divario abissale con il Jackson Lamb di Mick Herron e il suo codazzo di casi umani, complessi e mai davvero redenti, immersi in una serie che sin dalle prime battute aveva un budget inimmaginabile per Dept. Q. La serie Netflix rimane comunque un prodotto che, nel tentare di fornire un’alternativa a una delle migliori serie a oggi in onda, mette sul piatto un’ottima proposta, decisamente sopra la media delle serie poliziesche che settimanalmente vengono caricate sulla piattaforma della grande N rossa.
Nazione: Regno Unito
Voto
Redazione

Dept. Q - Sezione casi irrisolti
Dept. Q nasce come risposta di Netflix al successo di Slow Horses: non si avvicina al livello della serie Apple TV+ per limiti di budget e per un costrutto di fondo che, sotto sotto, è infinitamente più convenzionale e semplice di quello dei romanzi di Mick Herron e della serie di Will Smith. Tuttavia è un’ottima produzione poliziesca con una longevità potenzialmente infinita, dato che riesce a combinare lo sviluppo orizzontale del caso di stagione con quella familiarità acquisita lentamente, puntata dopo puntata, che ricorda i procedurali di una volta, quelli che continuavamo a guardare per decine di stagioni, anche quando i casi diventavano ripetitivi, perché ci eravano affezionati ai personaggi. Ecco: grazie a un casting coraggioso e fuori dagli schemi, grazie a un ottimo Matthew Goode che guida la serie e finalmente ottiene il responso critico che gli è sempre sfuggito nella sua lunga carriera, Dept. Q riesce facilmente a farci affezionare ai suoi personaggi e a farci sperare di rincontrarli presto.