Heartworm, recensione di una nostalgia anni '90

Quando il dolore soffoca, cosa siamo disposti a fare per dargli un senso? È la risposta che cerca di darsi Sam

Heartworm, recensione di una nostalgia anni '90

Nel panorama del videoludo indipendente, non è raro trovare esperienze che ricalcano o richiamano la nostalgia degli anni '90, soprattutto per quanto riguarda gli horror e i survival horror. È (anche) questo il caso di Heartworm, sviluppato da Vincent Adinolfi: il gioco è soprattutto un omaggio ma con un tocco di modernità, perché nell'utilizzo delle tecniche odierne per ricreare fedelmente l'atmosfera "granulosa" e inquietante di quel tempo, suggerendo come la paura risieda nella suggestione, nella gestione dell'atmosfera e nel design, non manca di offrire la possibilità di mescolare elementi come l'estetica anni '90 ai controlli fluidi anziché i cosiddetti "tank control" del tempo, o di optare per una grafica un po' più moderna - che tuttavia sconsiglio, poiché molto grezza rispetto a quella più ricercata e autentica di trent'anni fa. Insomma, c'è la consapevolezza che non tutto potrebbe a oggi essere funzionale all'esperienza e la preferenza nei controlli ne è un esempio.

Heartworm, recensione di una nostalgia anni

Detto questo, Heartworm si pone come un'affermazione del fatto che il passato, con le sue limitazioni tecniche, può essere una fonte di creatività illimitata, capace di generare un'estetica unica e un'esperienza emotiva che va ben oltre il puro fotorealismo. È un’opera che dialoga direttamente con la memoria del giocatore, risvegliando ricordi di notti passate davanti a uno televisore a tubo catodico; una scelta stilistica certo non originale, perché di tentativi ne abbiamo visti e ne vedremo sicuramente ancora tanti, ma che a differenza di altri non ha il sapore del trucchetto per catturare i nostalgici, soprattutto perché narrativamente parlando prova a fondere il medium con il messaggio, poiché i ricordi della protagonista Sam sono tanto distorti e frammentati quanto la grafica "low poly" che li rappresenta. Sfortunatamente non riesce fino in fondo nel suo intento, come scopriremo nella recensione, ma è un tentativo che va senza dubbio considerato.

L'elaborazione del lutto

La narrazione di Heartworm è profondamente personale e intimista. La protagonista, Sam, è una persona in lutto, un’anima tormentata dalla perdita del nonno: questo dolore, come un parassita che si insinua nel cuore, la spinge in una discesa nella tana del Bianconiglio di internet, alla ricerca di un modo per contattare l'aldilà. È un espediente narrativo rischioso, che tuttavia funziona in particolare all'inizio, trasformando il gioco in un'esplorazione non solo di un luogo fisico, ma anche dei traumi e delle paure più recondite della mente. La casa in cui si ritrova, immersa nella solitudine montana, non è solo un’ambientazione horror, bensì una manifestazione tangibile delle sue memorie e delle sue angosce. Ogni stanza, corridoio e oggetto sono carichi di un significato simbolico, rappresentando una fase del processo di elaborazione del lutto di Sam.

Heartworm, recensione di una nostalgia anni

Non si tratta di una casa stregata nel senso convenzionale, quanto di un luogo plasmato dalle sue ossessioni e dal suo desiderio di riconciliazione con il passato. Questa scelta tematica è ciò che eleva Heartworm al di sopra di molti altri cloni del passato, conferendogli una profondità psicologica che pochi altri giochi del genere riescono a raggiungere; o meglio, lo sarebbe se il gioco a un certo punto non perdesse di vista se stesso e i suoi temi per qualcosa che scivola oltre l'intimità di una protagonista che smette di essere tale, in favore di un messaggio più grande del quale tuttavia non si coglie l'essenza. Sam smette di avere rilevanza all'interno di questo disegno ma il problema è che avendo speso la maggior parte delle sei ore circa con lei, quando questa tela si espande non ne rimane abbastanza per dare il sufficiente contesto o peso, lasciando così il giocatore confuso finché Sam non prova a riconquistare le scene. Quando succede, tuttavia, è tutto un gioco di implicazioni e sottintesi, mai di risposte concrete, che al netto della natura psicologica del gioco dopo un po' cominciano a diventare stucchevoli.

I temi di partenza sono buoni, dunque, poi il gioco si perde nelle sue stesse idee, infarcendo l'esperienza al punto tale da smarrire se stesso e non riuscire a dare il giusto spazio e la giusta voce a tutto quello di cui vorrebbe parlare. Considerata la brevità dell'esperienza, sarebbe stato meglio focalizzarsi su Sam e la sua ossessione fino alla fine, senza cercare di allargare un dipinto per il quale non c'è sufficiente tela o cornice.

Un gameplay in puro stile anni '90

In Heartworm c'è, ludicamente parlando, tutto quello che potreste aspettarvi da un videogioco basato su quegli anni: le inquadrature fisse, uno dei punti forti nel creare la tensione e l'incertezza tipiche dei survival horror, sebbene qui non siano sempre gestite in maniera ottimale e anzi a volte risultino proprio d'intralcio; i controlli tank, per chi vuole il pacchetto completo, ma che come già detto possono essere sostituiti con un modello molto più libero, combinando quindi passato e modernità; le mappe con tutti i loro segreti, per scoprire i quali spesso si deve andare da un estremo all'altro, e che per fortuna segnalano al giocatore quando una stanza è stata completata al 100% (anche se la scelta dei codici colore lascia un po' a desiderare in termini di chiarezza); enigmi, dei quali il gioco non difetta e anzi ne fa il cuore dell'esperienza come da manuale; infine, l'inventario limitato da saper gestire anche in relazione alle casse dove depositare oggetti, interconnesse tra loro in modo da non doversi abbandonare a un'eccessiva microgetione.

Heartworm, recensione di una nostalgia anni

Insomma, in termini di immersione negli anni '90 Heartworm non difetta, anzi è forse anche troppo focalizzato risultando un miscuglio tra Resident Evil e Silent Hill in modo marcato. Al netto di questo, la difficoltà dei puzzle non è mai frustrante: è stata calibrata per offrire il giusto senso di sfida e soddisfazione nel momento in cui la soluzione viene trovata, e molti di essi sono integrati in modo organico nell'ambiente, come nel caso di un gioco di scacchi che funge da indovinello. Gli scacchi sono un grande classico, lo sappiamo, e pressoché nessun horror, di sopravvivenza o psicologico, ne può fare a meno. L'illuminazione è l'aspetto che non mi ha convito. È coerente, se vogliamo, con il fatto che Sam utilizzi una macchina fotografica (anche per combattere, come vedremo), tuttavia l'utilizzo costante del flash per illuminare le aree più buie perde presto il senso di tensione che vuole trasmettere a fronte di una visione improvvisa e limitata per diventare un abuso continuo del comando, incuranti di eventuali spaventi che potrebbero emergere dalla luce improvvisa. Capisco l'integrazione con lo strumento principale di Sam, ma funziona poco sul lungo periodo soprattutto una volta comprese le minacce del gioco.

Questo ci porta al sistema di combattimento. In un genere dominato da pistole e coltelli, Sam si difende con una macchina fotografica. Non si tratta di un semplice espediente, potremmo anzi vederlo come una scelta che rafforza il tema del gioco: scattare una foto ai fantasmi è un modo per catturare un'entità, per confrontarsi con i propri demoni. Questo meccanismo, che ricorda in parte l'iconico Fatal Frame, trasforma l'azione in un'estensione della narrazione: le munizioni sono rappresentate dalle cariche dei rullini che troviamo in giro, in una quantità discreta e adatta al concetto di sopravvivenza, nell'attesa di recuperare qualche mod per la macchina fotografica che possa rendere più efficaci i nostri scatti (di nuovo, l'ispirazione a Fatal Frame è evidente).

Heartworm, recensione di una nostalgia anni

Questo costringe a valutare quando sia davvero opportuno confrontarsi con i nemici e quando, invece, provare ad aggirarli o darsi direttamente alla fuga per tornare in un altro momento il giocatore a fare affidamento sull'esplorazione e sulla fuga piuttosto che sulla forza bruta. L'assenza di un vero e proprio combattimento corpo a corpo aumenta la vulnerabilità di Sam e, di conseguenza, la tensione percepita dal giocatore. I boss, dal canto loro, richiedono giusto un vago approccio strategico per essere sconfitti.

Messo così, il sistema di combattimento potrebbe apparire interessante, invece ancora una volta Heartworm inciampa perché ben presto i nemici diventano non un elemento di spicco nel quadro horror che ci viene dipinto davanti ma una serie di ostacoli fine a se stessa, da evitare in particolare durante la seconda metà del gioco quando le "munizioni" si faranno molto più scarse. Se da un lato ha senso rifuggire le minacce ed evitare gli scontri inutili, per quel concetto di sopravvivenza e risparmio risorse tipico del genere, dall'altro perde di fascino nel momento in cui il gioco, temendo di generare eccessiva frustrazione legata a un discutibile bilanciamento di nemici e munizioni unito agli elementi tipici del survival horror (niente checkpoint, stanze di salvataggio messe qui e lì, eccetera), riempie il giocatore di oggetti curativi - come se piovessero dal cielo. Questo, contando che i nemici possono fare solo danno fisico e non esistono stati alterati di sorta, diventa sul non troppo lungo periodo un compitino fatto di fughe e occasionali confronti, un rimpiattino che si conclude quando si arriva a una boss fight.

Il fascino dell'estetica low poly

L'aspetto estetico del gioco è una delle sue forze trainanti. La scelta di adottare uno stile "low poly" che evoca la PS1 non è un espediente per nascondere limiti tecnici, ma una decisione artistica consapevole - sebbene stia diventando un po' abusata. La pixelatura e le texture imprecise non ostacolano l'immersione, la rafforzano, invitando la nostra immaginazione a colmare i vuoti e a creare mostri ancora più terrificanti. L'atmosfera è ulteriormente arricchita da una colonna sonora originale, inquietante e suggestiva, che accompagna il giocatore in ogni angolo della casa, amplificando il senso di solitudine e di minaccia imminente. Il sound design, in particolare, è ben gestito, con suoni distorti e bisbigli lontani che contribuiscono a creare un'atmosfera di costante disagio. Anche le cinematiche, sia pre-renderizzate che in tempo reale, mantengono lo stesso stile visivo, garantendo una coerenza artistica che immerge completamente il giocatore nel mondo di Heartworm. L'uso sapiente della luce e delle ombre, in particolare, è fondamentale per l'atmosfera, al netto delle critiche mosse sull'uso delle fotocamera come unica fonte di illuminazione da parte di Sam.

Heartworm, recensione di una nostalgia anni

L'amore per i classici del genere è evidente. Heartworm prova a ritagliarsi una propria identità, riuscendoci solo in parte per tutte le ragioni succitate: da una trama che parte bene ma finisce con il voler dire e fare troppo, fino a un sistema di combattimento, o meglio una gestione delle minacce, che avrebbe potuto essere più equilibrata e radicata nel creare atmosfera anziché ridursi a mero ostacolo da superare. La sua breve durata, tra le quattro e le sei ore, sarebbe stata giusta se si fosse limitato a rimanere sui binari posti all'inizio, ma la narrativa convoluta fa sì che il gioco finisca troppo presto per trattare bene le sue stesse evoluzioni. I finali multipli, da parte loro, provano a incentivare una rigiocabilità che esplora le diverse sfaccettature del gioco e delle scelte del giocatore.: possiamo vedere ogni finale come un'ulteriore riflessioni sui temi del lutto e della perdita che fanno da base dell'esperienza. La possibilità di sbloccare percorsi e segreti aggiuntivi in successive run, come i “Possum” nascosti, aggiunge infine un incentivo ulteriore all’esplorazione e all'approfondimento.

Versione Testata: PC

60

Voto

Redazione

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Heartworm, recensione di una nostalgia anni '90

Heartworm parte molto bene, mettendo sul piatto una tematica intima e personale come il lutto e la sua elaborazione, un'atmosfera ben riuscita e un senso di tensione crescente. Quando però tenta di fare di più, ecco qui è dove inizia a traballare pesantemente: la narrazione chiede troppo a se stessa, perdendo di vista le sue premesse per provare ad allargarsi oltre la sua cornice, mentre il senso di pericolo dovuto alle minacce che Sam deve affrontare scivola ben presto nella frustrazione di nemici piazzati per il semplice gusto di rappresentare un ostacolo, al quale si cerca di mediare riempiendo il giocatore di oggetti curativi. Più avanza e più si sbilancia, trasformandosi in un'esperienza che nel suo cercare di fare troppo non rispetta i propri stessi tempi, concludendosi senza dare il tempo di assaporare quello che vorrebbe trasmettere e diventando una piccola nota a pie' di pagina nella sconfinata enciclopedia dei survival horror.

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