La recensione di Dying Light: The Beast – Il ritorno di Kyle Crane tra vendetta, metamorfosi e un gameplay che recupera il pathos del primo capitolo
La nuova fatica di Techland non rivoluziona la saga, ma consolida le sue radici: narrazione lineare e un antagonista poco incisivo convivono con parkour rifinito, notti oppressive e un Crane più che mai sospeso tra umanità e furia.

C’è sempre un momento in cui una saga sceglie di affrontare i propri fantasmi, e per Dying Light quel momento coincide con il ritorno di Kyle Crane. Non più il semplice agente mandato a Harran, ma una creatura che, dopo gli eventi de The Following, ha superato i confini della sua stessa natura: qualcosa di più di un Volatile, capace di mantenere lucidità e umanità anche quando la furia si impossessa di lui. È così che lo ritroviamo in The Beast, prigioniero nelle mani del Barone, simbolo di un potere che continua a piegare mutazioni e dolore per trasformarli in armi.
Questa premessa non è soltanto un pretesto narrativo, ma un chiaro messaggio al giocatore: The Beast vuole riprendere i fili lasciati in sospeso, trasformando la fragilità del protagonista in un nuovo punto di partenza. Se da un lato Crane porta sulle spalle il peso delle sue trasformazioni, dall’altro diventa specchio della serie stessa, che sceglie di abbracciare la propria eredità senza rinunciare a reinventarsi. È un equilibrio difficile, perché la continuità con il passato deve convivere con l’esigenza di sorprendere chi ha già vissuto Harran e le sue notti interminabili.
Techland ha deciso di non virare verso i territori del survival horror classico: niente gotico, niente jump scare alla Resident Evil Village. Il cuore di The Beast è altrove, in un’azione serrata e muscolare, costruita per restituire la sensazione costante di un mondo che ti è ostile e che ti costringe a reagire con brutalità. Una filosofia che lo avvicina a Dead Island 2 sul piano della frenesia, pur differenziandosene per tono: dove l’avventura californiana sceglie ironia e leggerezza, qui tutto è più cupo, più serio, più orientato a un conflitto che parla di vendetta e sopravvivenza.
Un ritorno che non è nostalgia, ma un atto di rottura e di rilancio. Ma sarà davvero la strada giusta per riportare Dying Light al centro della scena?
La trama di Dying Light: The Beast: una vendetta che scivola tra linearità e comprimari dimenticabili
La narrazione di Dying Light: The Beast si muove lungo un sentiero lineare e privo di ramificazioni, portandovi a seguire Kyle Crane nella sua vendetta contro il Barone, responsabile di anni di esperimenti e sofferenze. La vostra esperienza sarà scandita da obiettivi piuttosto semplici — trovare alleati, colpire le forze nemiche, avanzare fino allo scontro finale — senza scelte morali o bivi narrativi che possano modificare il corso della storia. Questa impostazione garantisce costanza nel ritmo, ma al tempo stesso riduce la profondità del racconto, facendo percepire l’intera trama come un’occasione in parte sprecata rispetto al potenziale del personaggio e del contesto.
Crane vive la sua condizione più come una maledizione che un dono: inizialmente cerca di resistere alla tentazione di abbandonarsi alla furia, ma proprio questa capacità lo rende il bersaglio del Barone, che vuole piegare il suo potere per trasformarlo in un’arma. Sorprende il fatto che gli altri comprimari non lo percepiscano come un mostro, bensì come una risorsa, eppure neanche loro riescono a spiccare davvero. Molti personaggi secondari, pur avendo un ruolo funzionale alla trama, non presentano un background stratificato o memorabile, risultando piatti e poco incisivi, lontani dai volti più interessanti visti nel primo Dying Light.
Il difetto più evidente riguarda proprio il Barone: pensato come antagonista centrale, appare macchiettistico e poco carismatico. È un villain che ricorda figure come Albert Wesker nei primi Resident Evil, o alcuni cattivi monodimensionali di Far Cry, caratterizzati più da un atteggiamento sopra le righe che da vere motivazioni psicologiche. L’intenzione è chiara — costruire un nemico da odiare — ma manca quella complessità che avrebbe reso il conflitto davvero memorabile.
Sul fronte delle attività secondarie, invece, la situazione migliora: le missioni opzionali si inseriscono bene nel contesto, permettendovi di approfondire Castor Woods e la sua comunità, pur senza trasformarsi in linee narrative memorabili. La vostra campagna principale, unita a parte delle quest secondarie, può durare attorno alle 20 ore a difficoltà normale: una longevità onesta, ma che conferma la scelta di puntare più sulla solidità della linearità che sulla ricchezza della ramificazione.
Il confronto con i primi Dying Light è inevitabile: se allora il ritmo era scandito da una tensione crescente e da comprimari che, pur senza grande complessità, riuscivano a lasciare un segno (pensiamo a figure come Rais nel primo capitolo), qui ci si trova davanti a una costruzione narrativa più rigida, priva di colpi di scena capaci di sorprendere davvero. Una decisione che, pur mantenendo coerenza e fluidità, vi lascerà con una domanda inevitabile: quanto avrebbe potuto guadagnare The Beast se avesse osato di più nella sua storia?
Dying Light: The Beast: quando il gameplay ridisegna il confine tra sopravvivenza e brutalità
In Dying Light: The Beast il parkour non è solo un marchio di fabbrica, ma il vero cardine dell’esperienza. La patch pre-lancio ha affinato animazioni e fluidità, restituendo una sensazione di continuità che mancava nelle prime build: arrampicate più rapide, salti più reattivi, un flusso costante che trasforma ogni tetto, cornicione e balconata in un’opportunità di fuga. Non è una scelta opzionale: la sopravvivenza dipende dal muoversi in verticale, come ben dimostra la città centrale di Castor Woods, con il municipio che diventa primo vero hub dopo il monastero iniziale. Qui le strade sono spesso trappole, infestate di infetti, mentre dall’alto il giocatore costruisce percorsi alternativi che rendono l’esplorazione più sicura ed efficiente. È un ritorno alle origini che rievoca lo spirito del primo capitolo, ma con una maggiore consapevolezza: Techland vuole che il parkour sia non solo spettacolare, ma indispensabile.
Il combattimento riesce a mantenere una propria identità, soprattutto nelle fasi corpo a corpo. Colpire con un’arma a due mani restituisce un senso di fisicità immediato, con differenze tangibili tra un martello pesante e una lama affilata. Il sistema di danni permette di puntare arti e torso, amplificando la sensazione di controllo e strategia. Gli effetti elementali, ridimensionati rispetto al passato, non si attivano più con facilità e diventano parte integrante di un sistema basato su colpi critici o caricati: un modo per rendere più bilanciato il gameplay ed evitare l’abuso di status alterati. Le armi da fuoco, invece, trovano un ruolo mirato: usate poco nell’esplorazione quotidiana, diventano strumenti preziosi contro i boss, quando il peso delle munizioni accumulate può davvero ribaltare uno scontro. È una gestione intelligente, che premia chi sa pianificare piuttosto che sprecare.
Il Beast Mode rappresenta una lama a doppio taglio. Nelle prime ore appare come un’ancora di salvezza, da attivare solo in caso di disperazione, quando la barra si carica e permette di trasformare Crane in una furia inarrestabile. Ma è solo avanzando che la trasformazione assume un peso strategico: talenti che prolungano la durata, permettono la cura o addirittura concedono la trasformazione a piacimento danno al giocatore la sensazione di incarnare davvero un ibrido tra uomo e mostro. Il rischio è che a difficoltà medio-bassa questo semplifichi troppo gli scontri, ma la filosofia resta coerente: The Beast vi spinge a gestire la rabbia di Crane come risorsa, da dosare e padroneggiare con attenzione.
La notte torna a essere il terreno più pericoloso, riportando il franchise alle atmosfere opprimenti del capostipite. L’oscurità non è un semplice cambio estetico, ma un moltiplicatore di minacce: i volatili inseguono con percorsi più aggressivi e imprevedibili, mentre la densità degli incontri aumenta la sensazione di precarietà. L’introduzione delle Chimere, esperimenti falliti del Barone, porta varietà in forma di boss fight uniche. Non diventano però presenze dinamiche nell’open world, come avveniva con alcuni mutanti speciali dei primi capitoli: questo le rende memorabili come eventi, ma riduce l’imprevedibilità dell’esplorazione. È una scelta che funziona a metà: regala momenti intensi, ma lascia il rimpianto di non poterle incontrare liberamente nel mondo di gioco.
La progressione è bilanciata e gratificante: ogni abilità conquistata restituisce un senso di crescita coerente con la trasformazione di Crane. Non ci sono perk rivoluzionari che cambiano radicalmente il modo di giocare, ma il percorso resta equilibrato, senza picchi di lentezza o accelerazioni artificiali. A difficoltà bassa l’esperienza diventa quasi permissiva, mentre a livelli più alti ogni errore si paga caro: la differenza si sente soprattutto negli scontri prolungati, dove l’uso attento delle risorse e la padronanza del parkour diventano fondamentali.
La grafica di Castor Woods in Dying Light: The Beast, tra suggestioni riuscite e limiti inevitabili
Dal punto di vista visivo, Dying Light: The Beast riesce a costruire un’ambientazione credibile e coesa, anche se non vastissima. La dimensione contenuta di Castor Woods diventa quasi un pregio: esplorare a bordo delle jeep rende l’attraversamento più dinamico, evitando la sensazione di legnosità che a piedi si farebbe sentire nelle lunghe percorrenze. Non è un open world smisurato, ma un ambiente che trova la sua forza proprio nella misura, capace di rimanere leggibile e funzionale.
I panorami e gli scorci non mancano, soprattutto quando l’occhio si posa sulle aree cittadine: tetti, piazze e vicoli restituiscono il meglio della direzione artistica, più efficace rispetto alle zone aperte che, pur evocando le Alpi o la Svizzera come ispirazione, non riescono a trasmettere lo stesso impatto. Va detto che i biomi diversi non sono realmente presenti: la varietà geografica è meno accentuata di quanto promesso, e questo limita la percezione di trovarsi in un territorio davvero eterogeneo.
Sul piano del design dei nemici, il lavoro è solido ma non rivoluzionario: i volatili e le Chimere convincono senza tuttavia imprimersi come icone memorabili del genere. Le animazioni, invece, si confermano ben integrate: il parkour scorre con naturalezza, i colpi durante i combattimenti restituiscono peso e le sequenze di smembramento hanno una brutalità che rinforza la fisicità dell’esperienza. L’effetto luce/buio rappresenta uno dei punti più riusciti: il passaggio dal giorno alla notte modifica radicalmente la percezione dell’ambiente e contribuisce a creare quell’atmosfera di oppressione che resta marchio di fabbrica della serie.
Sul fronte tecnico, i risultati sono positivi ma con qualche limite. Su laptop con RTX 3060 il titolo gira bene a livello medio/alto con framerate stabile a 60 fps, mentre su schermo ultrawide 2K con RTX 4060 Ti la resa è ottima in qualità alta, ma attivando il ray tracing le prestazioni calano drasticamente, compromettendo la fluidità. La patch pre-lancio non ha introdotto cambiamenti significativi sul piano dell’illuminazione o della stabilità, segno che il lavoro principale era già stato fatto in fase di sviluppo. Nel complesso, non si riscontrano aree meno curate o problemi di performance tali da incrinare l’esperienza.
Il comparto grafico di The Beast è dunque coerente con le ambizioni del progetto: non punta a rivoluzionare il genere con soluzioni artistiche inedite, ma offre una resa solida e atmosferica, in grado di sostenere l’impianto narrativo e ludico senza tradirne le promesse.
Versione Testata: PC
Voto
Redazione

Dying Light: The Beast
Dying Light: The Beast segna il ritorno di Kyle Crane, trasformato in qualcosa di più di un Volatile e deciso a vendicarsi del Barone. La narrazione, lineare e priva di scelte, soffre per comprimari piatti e un antagonista poco incisivo, risultando un’occasione parzialmente sprecata. Dove il racconto non osa, il gameplay convince: parkour fluido e indispensabile, combattimenti fisici e notti oppressive riportano al pathos del primo capitolo. Solido, divertente, ma conservativo.

