Dove nasce la Mafia: Terra Madre riscrive la storia della saga - La Recensione
Nessuna città da conquistare, nessun impero da costruire: solo la Sicilia, l’ingiustizia e il sangue. E un ragazzo che non voleva essere solo un criminale.
Con Mafia: Terra Madre, Hangar 13 firma un prequel che riscrive le fondamenta della storica saga videoludica Mafia, portando i giocatori in una Sicilia di inizio Novecento dove la criminalità organizzata è ancora informe, ma già pericolosa. Questo nuovo capitolo, attesissimo dai fan e parte integrante del franchise, non si limita a raccontare le origini della mafia, ma ne esplora la nascita sociale e culturale attraverso lo sguardo di Enzo Favara, un ex carusu (storicamente, i giovani che lavoravano all'interno delle miniere di zolfo, spesso in condizioni di estremo disagio) intrappolato in un mondo che non perdona nessuno.
Lontano dai gangster eleganti e dalle città moderne dei capitoli precedenti, Mafia: Terra Madre non si limita a proporre una nuova ambientazione: ridefinisce completamente il baricentro della serie, sostituendo il fascino decadente della mitologia criminale con la crudezza storica di un’epoca in cui la mafia non era ancora spettacolo, ma solo necessità, sopravvivenza, o più spesso disperazione.
Siamo nei primi anni del Novecento, quando la criminalità non ha ancora codici condivisi né simboli iconici, ma si annida nei meccanismi della sopravvivenza quotidiana. Qui non troviamo un Don Corleone a dominare la scena, piuttosto un suo antenato ancora in definizione, lontano dalla definizione di mafioso mainstream a cui siamo abituati oggi. Terra Madre racconta la mafia prima della mafia, in una forma embrionale e grezza, che cresce nel silenzio e nella fame.
Ciò che il gioco riesce a fare, con sorprendente coerenza, è rinunciare del tutto alla spettacolarizzazione del crimine. Non ci sono imperi da fondare né quartieri da conquistare: solo esistenze da ricostruire e una storia fatta di gesti minimi, spesso brutali quanto necessari.
Ma cosa succede quando l’equilibrio precario su cui si regge tutto inizia a incrinarsi, quando il rispetto smette di essere una moneta e torna a essere minaccia? Cosa resta di chi voleva solo sopravvivere, quando si accorge di essere diventato parte del meccanismo che lo opprimeva? È in quel momento che Mafia: Terra Madre smette di raccontare un contesto e comincia davvero a raccontare la storia mediante le gesta di un uomo, ovvero Enzo Favara.
Mafia: Terra Madre racconta il circolo vizioso della morte per colpa dell'orgoglio
Mafia: Terra Madre ci racconta un tempo in cui la mafia non era ancora una struttura codificata, ma un impulso embrionale di controllo e sopravvivenza, nato nel vuoto lasciato dallo Stato nei territori dimenticati dell’entroterra siciliano. Siamo all'inizio del Novecento, tra il 1904 e il 1908, e a fare da teatro a questa vicenda è un'Italia ancora giovane, in cui la miseria e il silenzio della legge lasciano spazio a forme di autorità parallele.
Il protagonista, Enzo Favara, è uno dei tanti carusi costretti a lavorare nelle miniere di zolfo: bambini sfruttati in condizioni disumane, simbolo reale di un’Italia che ha preferito voltarsi dall’altra parte. La sua fuga dalla miniera apre la strada a un'apparente salvezza, offerta da Don Torrisi non come gesto di benevolenza, ma come mossa strategica: il ragazzo diventa una pedina utile per impedire che gli affari del rivale Don Spadaro si espandano oltre i propri confini.
A Enzo viene dato un lavoro e, soprattutto, un nuovo ruolo nel sistema. Seguirà spesso Luca Trapani, consigliere elegante e riflessivo, vero contrappunto morale alla brutalità del mondo circostante, e il giovane Cesare, nipote del Don, in quello che sembra un apprendistato mafioso mascherato da vita normale. Persino la partecipazione a un palio locale, apparentemente innocua, finisce per diventare il pretesto per accendere nuove rivalità tra famiglie. In queste fasi iniziali, la mafia appare più come una gerarchia tribale che come un’organizzazione criminale moderna. Quando Enzo riscuote il pizzo, lo fa con educazione, offrendo protezione, e riceve in cambio sguardi rassegnati, non rancorosi. C’è quasi un’aura fiabesca che accompagna i suoi gesti, come se davvero stesse portando ordine in un mondo in rovina.
Ma è una pace fasulla, e lo capiamo presto: da metà gioco in poi, la narrazione accelera, e quell’equilibrio comincia a incrinarsi. Il potere diventa territorio da difendere, l’amicizia si fonde con l’inganno, e l’affetto sincero per Isabella, figlia di Torrisi, assume toni tragici. La vendetta, la giustizia personale, il rispetto e il codice dell'onore si intrecciano con antiche regole non scritte, come la legge del taglione. Non si parla mai esplicitamente di "mafia" – non ancora – ma i semi sono tutti lì, pronti a germogliare.
Pur raccontando un mondo complesso, Terra Madre sceglie una struttura narrativa filoguidata: non lascia spazio a decisioni morali o a scelte multiple. Non si costruisce la propria via, si percorre quella tracciata. Ed è proprio nella linearità che trova la sua forza: in 18 ore di gioco, ci si ritrova completamente immersi in una realtà che non fa sconti, dove il tempo stesso sembra rallentare per lasciar spazio al peso della storia. Ogni passaggio ha la sua quiete, ogni scena il suo tempo. È un ritmo che ricorda certi romanzi storici più che un videogioco d’azione, e funziona.
A livello personale, posso dire che la scrittura dei personaggi è uno dei punti di forza più sorprendenti. Sono pochi, ma tutti ben caratterizzati, credibili, con una presenza scenica che li rende vivi anche quando tacciono. Ed è forse questo che lascia il segno: non solo quello che fanno, ma quello che sono.
Un gameplay incalzante, dove essere "guidati" sembra funzionare!
Mafia: Terra Madre non invita il giocatore a perdersi in un mondo aperto né a scrivere la propria storia: preferisce accompagnarlo in una vicenda precisa, contenuta e lucidamente diretta. La struttura del gioco è lineare e volutamente circoscritta, quasi a voler ribadire che, in certi ambienti e in certi tempi, le strade sono già segnate. Non ci sono deviazioni significative, né libertà reali di scelta: l’azione si snoda attraverso missioni ben incastonate e luoghi progettati per raccontare, non per essere esplorati liberamente. La presenza di una modalità Esplorazione o della rigiocabilità dei capitoli rappresenta più un complemento che una vera alternativa: un’occasione per chi vuole completare la collezione o sbloccare qualche obiettivo nascosto.
Questo approccio, però, non va letto come un limite. Al contrario, è proprio nella sua regia controllata che il gioco costruisce ritmo e tensione. Le missioni alternano in modo bilanciato sezioni stealth e fasi d’azione più diretta, mantenendo costante l’attenzione del giocatore. L’infiltrazione, favorita da un “sesto senso” attivabile da Enzo per individuare i nemici, risulta accessibile e strategicamente ordinata, anche se, a difficoltà normale, rischia talvolta di essere troppo indulgente. Le sparatorie sfruttano un sistema di copertura ben costruito, ma la tenuta dell’esperienza viene talvolta minata da un’intelligenza artificiale incostante, incapace di offrire una vera sfida tattica nelle situazioni più tese.
Non mancano, tuttavia, sequenze in cui la brutalità emerge in modo più crudo e diretto, come gli scontri corpo a corpo all’arma bianca, che ricordano più un rito ancestrale che una semplice rissa da strada. In queste fasi, l’ambientazione storica – quella della Sicilia mineraria e rurale a cavallo tra Otto e Novecento – si manifesta in tutta la sua durezza: una terra di fatica, di fame, di coltelli affilati e leggi non scritte.
Tutto sembra ruotare intorno a una scrittura che guida ogni passo, ogni svolta, ogni silenzio. Le sequenze filmate e quelle giocabili si intrecciano senza soluzione di continuità, con una direzione che non lascia mai spazio alla distrazione o all’incoerenza. L’effetto complessivo è quello di un’opera cinematografica giocabile, dove la visuale in terza persona, le scene scriptate e il ritmo delle missioni compongono una narrazione compatta e sempre più incalzante, che non perde mai il controllo né la forza espressiva.
E se da un lato manca del tutto la possibilità di costruirsi una bussola morale – perché le decisioni sono già state prese e il percorso è tracciato fin dall’inizio – dall’altro è impossibile restare indifferenti. In diciotto ore di gioco, l’intensità dell’esperienza cresce senza pause, e i personaggi, sebbene pochi, risultano incisivi, ben scritti, carismatici. La loro presenza scenica è forte, non solo per ciò che fanno, ma per come lo fanno, e questo contribuisce in modo decisivo a rendere ogni momento vissuto al loro fianco non solo coinvolgente, ma anche emotivamente memorabile.
Sembra un film sulla Mafia prima della Mafia
C’è una regia precisa dietro ogni scelta di Mafia: Terra Madre, e non solo a livello narrativo. La direzione artistica del gioco si distingue per coerenza e rigore: ogni inquadratura, ogni scorcio della Valle Dorata, ogni dettaglio delle miniere o dei vicoli di San Celeste è pensato per evocare un’atmosfera sospesa tra il neorealismo italiano e il cinema criminale d’autore. Più che un semplice gioco d’azione, quello di Hangar 13 è un esperimento narrativo travestito da avventura, e la messa in scena lo conferma fin dai primi minuti.
Il comparto grafico, pur senza spingere ai limiti le prestazioni tecniche, fa un ottimo lavoro nel restituire la polvere, la ruggine, la fatica. La fotografia gioca spesso su contrasti netti e restituisce quella Sicilia reinventata con una forza visiva che non cede mai alla cartolina. Il lavoro sui volti è ottimo, specialmente su Enzo e Luca, che regalano una presenza scenica credibile, quasi teatrale. I modelli non sono ovviamente allo stato dell’arte, ma sono espressivi quanto basta per restituire emozioni vere nei momenti chiave.
Giocato su PC desktop con RTX 4060 Ti e risoluzione 1440p, Terra Madre si comporta in modo eccellente: 60 FPS quasi sempre stabili, senza scatti evidenti durante l’azione. L’esperienza resta fluida anche nelle fasi più concitate, con una buona risposta dei controlli e un’interfaccia pulita. L’unica incertezza si rileva nel passaggio tra le cutscene e il gameplay, dove può verificarsi qualche leggero scatto, probabilmente dovuto a un caricamento asincrono o alla gestione della memoria. Nulla di drammatico, ma si spera che una patch al day one possa correggere questo difetto residuo.
Ma è soprattutto la direzione audio a fare la differenza. I suoni ambientali costruiscono una dimensione uditiva concreta e tangibile. La colonna sonora, mai invadente ma sempre pertinente, alterna momenti strumentali dal sapore mediterraneo a incursioni più moderne e minimali, sottolineando i passaggi emotivi con eleganza. Ne parleremo meglio nel paragrafo dedicato, ma è giusto dire che l’impatto musicale è parte integrante del modo in cui Terra Madre racconta il suo mondo.
E poi c’è il doppiaggio. Raramente in un videogioco italiano si è sentita una cura così profonda per la resa linguistica dei dialoghi. Un successo tutto nostrano, dal momento che Hangar 13 ha chiesto l'ausilio dell'italiana Stormind Games (Batora, A Quiet Place), per aiutarla a calare correttamente il setting del gioco all'interno della vera sicilia del 1900. Un lavoro certosino e preciso, che ha aiutato in modo esemplare il gioco a contestualizzarsi alla perfezione in quel periodo storico così particolare. L’uso del dialetto siciliano, modulato, mai eccessivo, sempre coerente con il contesto, dona autenticità alle interazioni, rendendole vive, taglienti, visceralmente credibili. I personaggi non parlano come maschere teatrali, ma come persone reali, con cadenze, inflessioni e modi di dire che si fanno subito riconoscibili. In un panorama spesso livellato da scelte neutre, Terra Madre osa e vince: anche grazie alle voci, la sua Sicilia fittizia sembra più vera di molte ricostruzioni storiche.
Infine, va riconosciuta ad Hangar 13 una certa maturità nel trattare i riferimenti storici. Sebbene la Valle Dorata sia fittizia, i richiami alla Sicilia ottocentesca, alle miniere di zolfo, alla formazione delle prime cosche, non sono mai didascalici. Piuttosto, emergono per contaminazione nei nomi, nei costumi, nella lingua sporca dei personaggi, nei rapporti di potere. Tutto contribuisce a dare peso e consistenza all’opera. Non si cerca l’effetto documentario, ma si sfiora qualcosa di più raro: la verosimiglianza emotiva.