Bounty Star, Armored Core si dà all’agricoltura nel selvaggio West – Recensione PC 

La recensione dell’action mecha di Dinogod. Una discreta base di partenza e tante idee interessanti, che però non trovano appieno compimento 

di Jacopo Retrosi

Campi da coltivare e basi da costruire sono attività piuttosto in voga nel panorama videoludico contemporaneo. I giocatori ne apprezzano la natura rilassante, la libertà nella gestione e nell’accumulo delle risorse, ma personalmente tendo a storcere il naso quando le becco tra le etichette di un titolo. Posso fare un’eccezione, però, se nel mix ci butti robottoni e dinosauri...

Sviluppato da Dinogod e pubblicato in questi giorni su PC e console da Annapurna Interactive, Bounty Star propone esattamente questo: combattimenti tra mech nel selvaggio West, tra taglie da riscuotere e lucertoloni da ammansire, conditi da elementi “lite” di farming sim e base builder. Un connubio intrigante, difficile da immaginare in movimento, che all'effettivo si arena su più aspetti, favorendone alcuni e vacillando sugli altri. Ma andiamo con ordine.

Il gioco prende piede nel Red Expanse, una regione semi-desertica post-post-apocalittica (della serie: “il mondo è finito, ma la gente ha ricominciato a vivere”). Vestiremo i panni di Clem, una veterana di guerra affranta dopo non essere riuscita a proteggere il suo insediamento da un gruppo di banditi, cosa che le è valsa il nomignolo “Graveyard Clem”. Per tirare a campare, prende possesso di una tenuta diroccata, con l’obiettivo di rifarsi un nome e ritrovare il fratello, scomparso dopo l’incidente.

La storia di Bounty Star non regala particolari sorprese, e la struttura a missioni brevi della campagna non consente di espandere granché personaggi e ambientazioni. Tuttavia, il minuto cast di protagonisti e comprimari è piacevole da seguire, e le interpretazioni in inglese sono ottime. Ogni tanto si prova a dare un tocco più cinematografico con filmati in-engine, ma il pessimo mixaggio audio rovina le scene. Nel complesso una vicenda poco memorabile, ma funzionale al contesto.

Pad alla mano, sorprende come il titolo Dinogod sembri avere più punti di contatto con l’Armored Core di FromSoftware che non altri franchise, a dispetto della premessa. Il Raptor MKII che piloteremo ha un passo piuttosto lento (non ai livelli di un MechWarrior a caso, intendiamoci) e deve rallentare ulteriormente per aprire il fuoco, ma è in grado di scattare senza restrizioni, e montare propulsori aggiuntivi per saltare o scartare rapidamente di lato. Purtroppo, non avremo modo di personalizzare lo chassis. In compenso, l’equipaggiamento annovera armi da mischia e a lungo raggio, tre sistemi di supporto manuali e due migliorie passive (che diventeranno poi tre). Mangiando tra una missione e l’altra è possibile potenziare ulteriormente i parametri (alla Monster Hunter), e si scende in campo con due loadout attivi, alternabili a comando.

Il campionario bellico è abbastanza variegato, con un paio di dozzine tra armi convenzionali (fucili d’assalto, lanciarazzi, spadoni...) e più “esotiche” (batterie di fuochi d’artificio, pale giganti, bacarozzi sputa-acido legati sul braccio...). Il feeling è buono, si percepisce bene il peso e l’impatto dei colpi, anche se i nemici non reagiscono a quelli di piccolo calibro. Sulla carta, i danni sono ripartiti in tre categorie (esplosivi, contundenti e “taglienti”, per lame e proiettili), e questo li rende più o meno efficaci a seconda della corazza del bersaglio, però all’atto pratico bastano 2-3 colpi di lanciagranate per buttare giù qualunque cosa. Eccetto i Driller, che credo si siano scordati di bilanciare: li introducono nelle prime battute, sono immuni a quasi tutti i danni, non c’è modo di stordirli e ti piantano sul posto con le loro combo in mischia. Danno più rogne del boss finale.

Un’altra caratteristica interessante del sistema di combattimento è la gestione del calore. Come tradizione, se si spara ininterrottamente il mech finirà per surriscaldarsi e spegnersi per alcuni secondi, ma qui può succedere anche il contrario, e cioè che si raffreddi al punto da andare in stallo. Le armi infatti possono generare o sottrarre calore, ampliando così il ventaglio di build realizzabili, senza dimenticare la possibilità di intervenire sulla temperatura di esercizio e sull’efficienza della dissipazione con appositi componenti e in base all’ora della sortita (fa più caldo di pomeriggio, più fresco durante la sera).

Meno convincenti gli attacchi in mischia. Nonostante le movenze appariscenti, gli ingaggi corpo a corpo sono legnosi, con un tracking inaffidabile e dei “trick” più fastidiosi che altro. Dovrebbero, in teoria, garantire un maggior controllo sulle proprie prestazioni, applicando bonus extra al termine di una sequenza (cure, reset del termostato...), ma partono spesso senza che si azzecchi il prompt, allappando un’opzione già di suo meno preferibile a piombo ed esplosioni, specie contro gruppi numerosi. Il che è un peccato, perché con qualche ritocco la mazza da baseball e il martellone sismico sarebbero molto divertenti.

In generale il livello di difficoltà è bassino, e una volta prese le misure del Raptor e capito come giostrare le varie dinamiche, le missioni si trasformano in brevi esercizi di stile. Unica eccezione gli sporadici boss (e i maledetti Driller), che hanno una barra dello stagger da drenare prima di poterli malmenare e qualche asso in più nella manica, ma nulla che non si possa gestire. A ravvivare un po' l'azione ci pensano gli obiettivi secondari, come concludere in fretta o utilizzare un determinato loadout, e la possibilità di esplorare le mappe in cerca di risorse e collezionabili, ma in ogni caso il ritmo si affloscia gradualmente, soprattutto nella seconda metà dell’avventura, quando le novità finiscono. A tal proposito: che fine hanno fatto le piantagioni e il crafting menzionati in apertura? Diciamo che se ne può fare a meno.

Quando Clem non è impegnata a cacciare banditi o a terrorizzare dinosauri, il vecchio capannone e le brulle zolle di terreno circostanti offrono diverse mansioni in cui investire tempo e denaro. Lotti radioattivi in cui piantare semi, fusti da riempire d’acqua, munizioni da pressare, polli e lucertole da accudire... Introducendo del sano micro-management nella nostra routine quotidiana possiamo ammortizzare i costi di manutenzione e diventare autonomi per quanto riguarda cibo e materie prime, oltre a fare cassa con la vendita di uova e vegetali in eccesso. Problema: una volta portato a termine il tutorial di qualcosa, non siamo più tenuti a interagirci.

Tolta la mantide gigante da compagnia, che si rifiuterà di seguirci in battaglia a stomaco vuoto, tutto ciò che è ricavabile tramite “duro” lavoro può essere ottenuto dal terminale del negozio. Vero, la spesa è maggiore, però non ci sono scadenze, possiamo ripetere le missioni quante volte ci pare e intascare di nuovo la taglia, e dopo i primi aggiornamenti i soldi piovono dal cielo. Personalmente non mi è dispiaciuto dedicare un paio di minuti al mattino per rifocillare le bestie e annaffiare le pannocchie per mantenere costante l’afflusso di viveri, ma mi rendo conto che avrei potuto farne a meno e non sarebbe cambiato molto. Non sviluppare la fattoria ci preclude alcune interazioni con i personaggi minori, in caso puntiate al 100%, ma la storia procede comunque. Non so, forse si poteva dare più risalto a questo aspetto dell’esperienza, che risulta tanto essenziale quanto accessorio.

Indicativamente per finire la campagna bastano tra le 10 e le 15 ore, una ventina per arraffare tutti i trofei. La rigiocabilità è scarsa, la trama è lineare e non c’è modo di perdere contenuti per strada. Il ritmo invece decolla bene ma perde mordente nelle battute conclusive. Una curva di apprendimento più bilanciata e avversari degni avrebbero fatto miracoli, sebbene il combat system non sembri tarato per match “alla pari”.

Per quanto riguarda la presentazione, non sono un gran fan dei modelli adottati per gli umani, il look plasticoso e gli sguardi vitrei non funzionano. Fortuna che si vedono di rado. Meglio mech, droni e sauri, con design essenziali ma efficaci, e accompagnati da una buona effettistica. Discreta la varietà di nemici, e anche le location, nonostante una manciata di temi ricorrenti, sono gradevoli e interessanti da navigare. Forse un po’ piccole, ma si sposano bene con la natura arcade degli obiettivi.

Nessun bug o bega tecnica da segnalare. Il Raptor però ha il vizio di incastrarsi nelle geometrie dei livelli, specie quando si gioca con i propulsori, e ogni tanto la ricarica “manuale” sembra partire per fatti propri. Solide le prestazioni, sulla 2070 Super del sottoscritto il titolo viaggia regolarmente sopra i 200 frame al secondo, ma l’assenza di opzioni grafiche potrebbe far storcere il naso a chi cerca compromessi sulle build più modeste. Altri orpelli che potrebbero far comodo: la possibilità di cambiare spalla su cui poggia la telecamera (un must per i TPS) e un menù per disattivare i potenziamenti permanenti del mech (l’annullamento della ricarica durante gli scatti fa solo danni). Scontata la colonna sonora dal piglio western, ma azzeccata.