A.I.L.A., recensione di un meta-horror fatto di alti e bassi
Quando l'abisso digitale ti scruta dentro, puoi solo accettare la sfida e rispondere al suo sguardo
Viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale non è più relegata al ruolo di semplice concetto astratto o spauracchio confinato nella fantascienza distopica degli anni ’80, alla stregua di Terminator o Hal 9000. Oggi l'IA è una presenza tangibile, pervasiva, quasi invasiva. Modella il nostro lavoro, influenza le nostre abitudini di consumo tramite algoritmi predittivi e, aspetto da non sottovalutare, sembra iniziare a comprendere le nostre emozioni, le nostre vulnerabilità e i trigger psicologici che ci rendono umani. C’è un sottile, ma persistente brivido nel pensare a una macchina che non si limita a eseguire comandi pre-programmati, imparando invece attivamente da noi. Immaginate un software che studia le vostre reazioni più viscerali, che monitora il battito del vostro cuore, la dilatazione delle pupille e i movimenti impercettibili del mouse per manipolarvi a suo piacimento.
È proprio su questa paura moderna, strisciante e attuale che fa leva A.I.L.A., il nuovo titolo horror sviluppato dai talentuosi, seppur emergenti, ragazzi di Pulsatrix Studios. In un mercato videoludico ormai saturo di jumpscare a buon mercato, di Youtuber che urlano davanti a webcam e di mostri che ci inseguono instancabilmente in corridoi bui e procedurali, questo titolo tenta una strada diversa, più cerebrale e ambiziosa. Si propone come un’opera meta-narrativa che promette di trasformare il giocatore da semplice utente passivo a vera e propria cavia da laboratorio. Ci troviamo immersi in un esperimento digitale dove il confine tra la realtà tangibile e la simulazione generata dal computer è destinato a infrangersi, lasciandoci con il dubbio costante e logorante: quello che stiamo vedendo è reale, o è solo un altro trucco?
Il Meta-Horror di A.I.L.A.
La premessa narrativa è senza dubbio il gancio più affilato e intrigante dell'intera produzione, l'elemento che spinge a superare le prime incertezze. Vestiamo i panni di Samuel, un beta tester residente in una futuristica San Paolo, incaricato di provare un’interfaccia rivoluzionaria gestita da un’intelligenza artificiale avanzata: A.I.L.A., acronimo che nasconde un'entità ben più complessa di un semplice assistente vocale. L’idea alla base non è semplicemente quella di "giocare a un horror", bensì di interagire con un’entità senziente che genera scenari basati sulle nostre presunte paure, adattando l'esperienza per cercare il punto di rottura della psiche umana.
L’incipit è d'impatto, quasi destabilizzante nella sua normalità apparente. C’è qualcosa di profondamente inquietante nel trovarsi in una casa virtuale, che funge da hub centrale tra una missione e l'altra, interagendo con un’IA che ti parla con una voce calma, sintetica ma stranamente "materna". Mentre ci chiede feedback, ci osserva e ci parla come se fossimo un amico, sappiamo perfettamente che, nel profondo, sta sfruttando queste informazioni per calcolare il modo migliore per terrorizzarci nella sessione successiva. La scrittura riesce a mantenere alta la tensione psicologica, specialmente nelle prime fasi del gioco. A.I.L.A. è un’osservatrice fredda, un "regista" invisibile e onnisciente che cambia le carte in tavola mentre giochiamo, alterando la geometria delle stanze o inserendo elementi disturbanti proprio quando abbassiamo la guardia.
Il gioco si struttura come un'antologia di orrori. Samuel viene lanciato in diverse simulazioni, ognuna distintiva e un proprio set di regole: si passa da "La Casa Impossibile", un delirio di architetture mutevoli e loop psicologici, a "La Donna sulla Strada", un incubo rurale fatto di fango, pioggia e minacce viscerali, fino a scenari che richiamano culti pagani ("La Foresta") o dungeon medievali infestati da non-morti. Questa varietà è il punto di forza narrativo: non si sa mai cosa aspettarsi dopo. Tuttavia, va detto che questa brillantezza concettuale tende a sfilacciarsi leggermente man mano che si prosegue nell'avventura. Quello che inizia come un thriller psicologico raffinato, degno di un episodio interattivo di Black Mirror, finisce talvolta per cadere in cliché del genere un po' più telefonati. Si ha la sensazione che l'IA, a un certo punto, smetta di "studiarci" per limitarsi a lanciarci contro il repertorio classico dell'horror (zombie, cultisti, mostri giganti), perdendo quel senso di minaccia intima e personalizzata che caratterizzava le prime, eccellenti ore di gioco. Inoltre, il sistema di karma e le scelte morali, pur presenti, sembrano avere un impatto meno decisivo di quanto promesso, lasciando il giocatore spettatore di un destino in gran parte già scritto.
Un gameplay a due teste e non sempre in armonia
Analizzando il gameplay nel dettaglio, ci si trova di fronte a una creatura a due teste, e purtroppo queste due anime non sempre dialogano in armonia. Possiamo dividere l'esperienza in due macro-categorie: l'esplorazione e il combattimento.
Quando il gioco si concentra sull'atmosfera, sull'esplorazione lenta e sugli enigmi, brilla di luce propria e tocca vette molto alte. La fase investigativa ricorda le migliori escape room digitali o i classici punta-e-clicca evoluti in prima persona: gli enigmi ambientali sono logici, ben integrati nel contesto narrativo e offrono quel giusto livello di soddisfazione che fa sentire intelligenti senza bloccarci per ore in tentativi frustranti. Non si tratta solo di trovare la chiave rossa per la porta rossa: spesso dovremo riparare circuiti elettrici, decifrare codici basati su indizi visivi sparsi per le stanze, o manipolare oggetti fisici per rivelare scomparti segreti.
C’è una tattilità nell’interazione con gli oggetti che è rara da trovare e merita un plauso: aprire cassetti uno ad uno, ruotare oggetti esaminandone il retro alla ricerca di un numero di serie, leggere documenti sparsi che approfondiscono la lore e manipolare meccanismi fisici restituisce un ottimo senso di immersione. In questi frangenti, il ritmo è perfetto: lento, oppressivo, calcolato. Ci si sente davvero un investigatore intrappolato in un incubo lucido, dove l'ambiente stesso è il nostro nemico e al contempo risorsa principale. La mancanza di una mappa HUD invasiva aiuta a mantenere l'attenzione focalizzata sui dettagli visivi dello scenario, costringendo il giocatore a memorizzare i layout e i punti di riferimento, aumentando il senso di smarrimento e, di conseguenza, la paura.
Il problema sorge, e in modo piuttosto evidente e doloroso, quando A.I.L.A. decide che è il momento di farci imbracciare le armi. Il sistema di combattimento è, senza mezzi termini, l'anello debole della catena e rischia di compromettere l'esperienza per molti giocatori, specialmente per chi cerca un feeling moderno. Le meccaniche di shooting e melee soffrono di una legnosità e una rigidità che sembrano appartenere a due generazioni fa, richiamando i difetti dei survival horror euro-jank dei primi anni 2000 anziché le rifiniture di un Resident Evil Village.
I colpi delle armi da fuoco mancano di impatto reale: il feedback è quasi assente. Sparare a un nemico con un fucile a pompa dovrebbe restituire una sensazione di potenza devastante, invece qui dà spesso la sensazione di colpire un muro di gomma o un sacco di sabbia, con reazioni dei nemici minime o inesistenti fino al momento della loro morte. Le hitbox risultano spesso imprecise, portando a momenti in cui si è certi di aver colpito il bersaglio (magari alla testa) senza però registrare alcun danno critico.
Inoltre, il bilanciamento della difficoltà in queste sezioni appare talvolta artificiale. Gli scontri si riducono spesso a una gestione goffa delle scarse risorse contro nemici che assorbono una quantità irragionevole di danni (i temuti "bullet sponge"). Ci si ritrova a correre in cerchio in arene ristrette, aspettando tempi di ricarica eterni (soprattutto con armi come la balestra o le pistole antiche presenti negli scenari storici), mentre l'IA nemica si limita a venirci incontro in linea retta. Le boss fight, in particolare, soffrono di pattern prevedibili e poco ispirati, trasformando quello che dovrebbe essere il culmine della tensione in un esercizio di pazienza e logoramento. È un vero peccato, perché questa deriva action finisce per smorzare la tensione costruita sapientemente poco prima. Invece di temere per la propria vita a causa dell'orrore della situazione, ci si ritrova spesso frustrati dalla macchinosità dei controlli, un sentimento di irritazione che uccide la paura molto più efficacemente di qualsiasi altra soluzione.
Luci e ombre di Unreal Engine 5
Sul fronte tecnico e artistico, A.I.L.A. si presenta come una vetrina delle potenzialità dell'Unreal Engine 5, mostrando i muscoli su alcuni aspetti ma inciampando sui dettagli di rifinitura. Visivamente, ci sono momenti che lasciano a bocca aperta. L'illuminazione, gestita grazie alla tecnologia Lumen, è ottima: le ombre si allungano e si deformano in modo realistico al passaggio di una torcia, la luce filtra attraverso le persiane creando pattern di polvere sospesa nell'aria, e i riflessi sulle superfici bagnate, metalliche o insanguinate sono molto credibili. Che si tratti di un corridoio futuristico asettico illuminato da neon freddi e sterili, o di una foresta oscura, fangosa e opprimente dove la luce lunare fatica a penetrare le fronde, l’atmosfera visiva è sempre densa, palpabile e coinvolgente. Gli scenari sono costruiti con una cura maniacale per l'architettura e l'arredamento, rendendo ogni stanza un piccolo quadro da esplorare. La direzione artistica riesce a differenziare bene i vari mondi simulati, dando a ciascuno una palette cromatica e un'identità visiva distinta.
Tuttavia, questa bellezza statica e architettonica si scontra violentemente con un comparto animazioni che non è all'altezza del resto della produzione. I modelli dei personaggi umani, e in particolare le creature nemiche, si muovono spesso in modo rigido, scattoso e quasi robotico. Vedere un mostro che dovrebbe essere terrificante avvicinarsi con un'animazione di camminata durante la quale sembra pattinare sul terreno, o vederlo incastrarsi in uno spigolo del mobilio ruotando su se stesso, spezza istantaneamente l'immersione che la grafica ambientale aveva così faticosamente costruito. Ho notato anche qualche glitch visivo, texture che caricano in ritardo e compenetrazioni poligonali che, pur non rompendo il gioco (non ho riscontrato crash di sorta), ricordano costantemente come si tratti di un videogioco imperfetto, rompendo quella sospensione dell'incredulità fondamentale in un horror.
Una menzione d'onore assoluta va riservata al comparto sonoro, vero protagonista occulto di A.I.L.A. Il sound design è forse l'elemento più riuscito e coerente dell'intera produzione. Gli scricchiolii del legno in una casa vecchia, i sussurri indistinti che sembrano provenire da dietro la testa, il ronzio elettrico inquietante delle apparecchiature server e una colonna sonora minimalista che sa esattamente quando tacere per lasciare spazio al silenzio (spesso più spaventoso del rumore) sono gestiti magistralmente. L'audio posizionale è eccellente: giocato con un buon paio di cuffie, il titolo sa come entrarti sotto pelle, facendoti voltare di scatto anche quando sullo schermo non c'è nulla.
Da menzionare l'assenza di una localizzazione in lingua italiana, che potrebbe tagliare fuori, od ostacolare, chi non ha una buona padronanza dell'inglese poiché il gioco fa un grande affidamento sulla narrativa, sui documenti testuali da leggere per risolvere enigmi e sui dialoghi con l'IA per comprendere la trama.