Zamora, recensione: Marcoré ritorna a Fantozzi, sostituendo il cinismo con Pupi Avati

Per il suo esordio alla regia, Marcoré guarda al passato di Milano e del cinema italiano, confezionando un film in perfetto equilibrio tra Fantozzi e Avati. La recensione di Zamora.

Zamora recensione Marcoré ritorna a Fantozzi sostituendo il cinismo con Pupi Avati

Nasci incendiario, muori pompiere. Un detto che solitamente presuppone un risultato negativo nel descrivere come il tempo tenda a smussare anche i caratteri più taglienti, caustici. Un detto a cui ho pensato vedendo gli esordi alla regia di due comici che hanno scritto la storia televisiva degli anni '90: Paola Cortellesi e Neri Marcorè. Due nomi di enorme talento, capaci di imitazioni e battute graffianti, le cui carriere prima televisive e poi cinematografiche si sono consumate negli stessi anni, talvolta condividendo il palco.

Ora arrivano entrambi all’esordio registico, in un momento storico in cui gli interpreti sono sempre più inclini a tentare la strada della regia. Lo fanno con film che sembrano abbracci: caldi, inclusivi, positivi e speranzosi verso il futuri, visto però sempre e solo attraverso la lente del passato. Il loro debutto in questo senso arriva a distanza di pochi mesi. Come è andata con C'è ancora domani di Cortellesi lo sappiamo: incassi da record, pioggia di candidature ai David di Donatello.

Con Zamora arriva una seconda, bella sorpresa. Neri Marcoré mette insieme un debutto alla regia di sostanza e con una certa solidità, che potrebbe fare bene presso un pubblico molto specifico: quello che non ha bisogno di spiegazioni rispetto al titolo del film. Zamora infatti è un leggendario portiere spagnolo nato nel 1901 e scomparso nel 1978. La sua leggenda è nota soprattutto a chi ha qualche annetto in più, a chi ricorda la Milano col cuore in mano, il miracolo economico. Zamora sembra averne nostalgia e quindi è facile pronosticare come possa suscitare i favori del pubblico che ricorda con affetto quell’epoca perché l’ha vissuta. Altri tempi, ma tempi migliori?

Zamora, recensione: Marcoré ritorna a Fantozzi, sostituendo il cinismo con Pupi Avati

La Milano - calcistica, lavorativa e sentimentale - che non c'è più

Viene da chiederselo vedendo Zamora, un film tratto dal romanzo di Roberto Perrone pubblicato nel 2003. Un libro che, sotto il velo della commedia e dello sport, racconta un vissuto molto autobiografico. Quello di un giornalista che negli anni ‘80 si trasferì a Milano, diventando firma di punta per il Corriere della Sera in ambito sportivo. La storia di Zamora è ambientata 20 anni prima, ma racconta l’eterno, lento adattarsi e prendere le misure di chi viene dalla provincia e si ritrova in una realtà dai ritmi e dalla terminologia in qualche modo differente.

Walter (Alberto Paradossi) non viene da così lontano: finisce a lavorare in un’industria milanese quando la fabbrichetta per cui teneva i conti a Vigevano chiude. Niente crisi: il proprietario vuole rilassarsi con la moglie a Bordighera, godendosi il gruzzolo guadagnato. Il capo raccomanda il giovane Walter a un amico di un amico. I nuovo magnate ha però ha un’incontenibile passione per il calcio. Walter, coltissimo e un po’ sprezzante, si trova a costretto a fingere una certa qual partecipazione nelle vicende sportive nazionali e aziendali. Anche nella sua azienda, come quella del ragionere Fantozzi, si gioca l’iconica partita ammogliati contro scapoli.

Walter è anche lui ragioniere, scapolo, ma si è infatuato di una bella segretaria che sembra nutrire interesse nei suoi confronti. A differenza di Cortellesi, Marcoré sceglie per sé un ruolo più defilato. Interpreta un ex portiere rovinato dal bere e dal gioco, un uomo cinico che Walter riesce a convincere a farsi dare lezioni di parate, per ottenere la sua vendetta sull’odioso collega d’ufficio che insidia la sua amata. Un ruolo perfetto per Marcoré, che come molti colleghi comici ha una certa predisposizione e un certo talento per i ruoli malinconici, ricchi di rimpianto.

Zamora, recensione: Marcoré ritorna a Fantozzi, sostituendo il cinismo con Pupi Avati

Gli uomini soli di Marcoré

Zamora vive e muore del suo approccio morbido, caldo, positivo. Per i suoi detrattori sarà in film poco incisivo, passatista, che racconta un’Italia che non c’è più attraverso il filtro dorato del ricordo, senza vedere le radici di quella caduta che ha trovato dopo il miracolo economico. Passatista il film un po' lo è, ma è un difetto endemico nel cinema nostrano, italiano e non, che segnala la preoccupante difficolta delle voci del cinema di oggi di guardare al presente, stando con i piedi nel qui e ora.

In Zamora però, a ben vedere, non è tutto rose e fiori. Il ritratto del parterre maschile della storia è molto in chiaro scuro. Così come accadeva nel film della Cortellesi, gli uomini presto o tardi sottovalutano e prevaricano le colleghe, le compagne, le sorelle e le mogli, che invece a conti fatti si dimostrano ben più pragmatiche e lungimiranti nel gestire vite, soldi, sentimenti. I capi sono inguaribili narcisi che si sentono in diritto e dovere di dettare la vita dei sottoposti ben oltre i limiti dell'ambito lavorativo. I padri sono disastrosi: assenti anche se presenti. Quello che unisce Walter al suo coach è anche una certa tendenza a fuggire dalle situazioni e dai confronti, rimanendo in un angolo a rimuginare, senza esporsi al confronto. Entrambi i personaggi sono codardi, in ultima istanza.

Zamora è un Fantozzi che racconta le piccolezze del ragioniere anni ‘60 al netto del cinismo, credendo che sia ancora possibile cambiare. C'è un'Italia fatta di bische, conversazioni da bar capitanate da commercianti furbetti, c’è un uomo consumato dall’alcol e dal gioco, c’è un giovane che perde un rapporto importante perché preferisce giudicare l’altro nella sua mente piuttosto che affrontarlo a viso aperto. L’approccio però è sempre morbido, in qualche modo rassicurante.

Zamora, recensione: Marcoré ritorna a Fantozzi, sostituendo il cinismo con Pupi Avati

Zamora sembra dirci: sì, abbiamo le nostre bassezze, ma almeno un pochino possiamo sistemarle, se decidiamo di lavorare su noi stessi. In pochi però lo fanno, rimarca. Per questo somiglia anche al cinema di Pupi Avati, quello nostalgico e un po’ passatista, di cui ricrea i tempi e i costumi. Lo fa con molta meno nostalgia di certe posizioni datate associate a quelle epoche.

il limite del film è che richiama molte altre pellicole che risultano più incisive, perché di fatto la trama di Zamora si riassume in una manciata di eventi, nessuno dei quali così sorprendente. I film non ha un messaggio forte come il finale di C'è ancora domani di Cortellesi, non porta una visione incisiva come il pessimismo esistenzialista di Fantozzi. L'importante è che la palla rotoli: Marcorè spinge con più decisione nei territori dell’intrattenimento.

Anche a livello metatestuale, il calcio è una scusa. Per Walter, per avvicinare la sua amata. Per Marcoré, per presentare qualcosa di molto vicino a una commedia romantica in una cornice sportiva. Il maggior pregio di questo esordio è di essere sostenuto da una squadra che lavora davvero bene: regia, montaggio, musiche e fotografia sono di livello e fanno uscire le scelte registiche di Marcorè sotto la miglior luce possibile.

Zamora

Durata: 100'

Nazione: Italia

7

Voto

Redazione

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Zamora

Concretezza, coerenza, affabilità e garbo sono le carte con cui esordisce Neri Marcorè al cinema con il suo primo film da regista. Zamora è una bella prova, che porta al cinema quell’intrattenimento garbato che tanti cercano, ma che con una certa finezza attualizza e problematizza i protagonisti della sua storia più e meglio di un film osannato proprio per la complessità delle sue relazioni tra uomini e donne come C’è ancora domani.

Chi gli riprovera di essere poco incisivo trascura che questo approccio pacato e luminoso è una precisa scelta di campo. I prevaricatori, i meschini, i potenti sono tutti presenti, ma Marcorè e l’ottima squadra di cui si circonda decidono volutamente di presentare anche loro con garbo. Peccato solo che, una volta segnato il goal dell’intrattenimento, il film non tenti di raddoppiare, portando con un’idea, un racconto, una svolta più incisiva e personale.