Weapons è un mistero horror che funziona: la recensione del film di Zach Cregger

Il regista di Barbarian torna con un nuovo horror originale e pieno d’atmosfera, a cui riesce la parte più difficile di questo genere di operazioni: non tanto costruire un mistero stuzzicante, quanto poi dare soddisfazione con la sua risoluzione.

di Elisa Giudici

Weapons è una delle creature cinematografiche più misteriose dell’estate. Lo è volutamente: circondato da una campagna marketing astutissima di Warner Bros e dal più fitto riserbo sui suoi contenuti (a parte qualche immagine promozionale e il trailer). Arriva nelle sale italiane con una semplice domanda e nessun indizio su dove poi andrà a parare.

C’è un mistero da poliziesco alla base del film: un’intera classe di bambini di una piccola scuola elementare statunitense è scomparsa nel nulla. Alcune videocamere li hanno ripresi quando, esattamente alle due e diciassette di notte, hanno lasciato in contemporanea i loro lettini, aprendo la porta di casa e correndo con un’inquietante postura (le braccia allargate e tese a formare una lettera v rovesciata) non si sa verso cosa, non si sa perché. Si sono lasciati dietro solo due testimoni, apparentemente inconsapevoli, subito scagionati dalla polizia: l’insegnante della classe Justine Gandy (Julia Garner) e e il piccolo Alex Lilly (Cary Christopher). Lei è un'adulta con un carattere piuttosto spigoloso, poca pazienza e un problema con l’alcol che diventa subito il capro espiatorio per i genitori dei scomparsi, lui un gracile e silenzioso ragazzino che l’indomani mattina è l’unico a occupare come al solito il suo banco.

Weapons è un mistero che copre bene le sue carte

Il secondo horror originale scritto e diretto da Zach Cregger ha davanti ha sé un ventaglio di possibilità infinite, dato quanto poco ci è dato sapere prima della visione. A partire dalla scrittura, il film lavora alacremente per costruire sopra le sue premesse un racconto che prova e per gran parte riesce a tenere alta la tensione e tangibile l’atmosfera ansiogena e ricca di mistero. Dopo l’antefatto raccontato da un voce femminile fuoricampo (una che ci assicura che stiamo per ascoltare una storia vera, indirizzando immediatamente le nostre aspettative in una specifica direzione), la storia è suddivisa in più capitoli dedicati ai singoli personaggi, che ne adottano il punto di vista, a partire da Justine. La maestra infatti viene tacciata di essere una strega e si ritrova nella difficile situazione di non sapere nulla della scomparsa dei suoi pupilli, di essere isolata dalla comunità e di poter provare a scagionarsi solo infrangendo la legge e la fragile privacy dell’unico sopravvissuto Alex, già al centro delle attenzioni dei media e della polizia.

La trama sembra ben instradata nella direzione di un personaggio femminile non gradevolissimo ma comunque oggetto di pressioni e soprusi immeritati (almeno, quasi sempre). Tuttavia il secondo capitolo dedicato a uno dei genitori dei bimbi scomparsi (il ruvido papà di Josh Brolin) cambia di nuovo la prospettiva. Siamo così testimoni di un film un po’ macchinoso nella dinamica, che talvolta fatica a rispettare le regole formali che si pone, ma che ha il grande pregio di mantenere a lungo il suo mistero e trovarne un finale audace e memorabile. Un finale che non ha paura di scontentare qualcuno e che tutto sommato è molto coerente con quanto visto prima e anzi: rilancia a livello visivo, cercando una chiusa impattante, alzando il volume cinematografico e l’audacia della storia di un paio di tacche.

Storia che continua a balzellare avanti e indietro nel tempo, esplorando i giorni e le settimane dopo la scomparsa dei bimbi dal punto di vista di un poliziotto stressato e incapace (Alden Ehrenreich), del comprensivo preside della scuola Marcus (Benedict Wong), di un tossicodipendente spiantato (Austin Abrams), fino ad arrivare al capitolo risolutivo. L’unico punto debole del film sta proprio in come non scivoli sempre senza attrito da un segmento all’altro. Nel terzo atto per esempio alcuni capitoli non sono strettamente connessi al singolo punto di vista e alcune ripetizioni o omissioni si rendono necessarie per arrivare alla chiusa.

Zach Cregger si conferma un talento che sa divertire e spaventare il suo pubblico

La raffinatezza che Cregger già dimostra a livello visivo alle volte manca nel pianificare la sua storia a livello strutturale. La regia infatti è molto curata, alle volte plateale nel dimostrare la propria intelligenza, la propria ricercatezza nel costruire l’inquadratura, nel creare rimandi visivi alle volte per il solo gusto di farlo (vedi i due interrogatori ai sopravvissuti riassunti con carrellate parallele che seguono i movimenti della bevanda di cortesia che viene offerta dalla polizia a entrambi). In molti hanno accostato film al primo Paul Thomas Anderson e a Magnolia in particolare, ma anche a Prisoners di Denis Villeneuve: Cregger non ha (ancora?) quel tocco da fuoriclasse, ma ha comunque l’abilità di mettersi in mostra con sequenze di vera sostanza, combinazione che rende il suo cinema seducente e non supponente o insopportabilmente vanitoso. Insomma, è uno bravo, che sa di esserlo e non si scorda mai di dimostrarlo.

Considerando poi che l’ultimo sciopero degli sceneggiatori a Hollywood ha costretto il regista a rivede da capo il cast, cambiando in corsa buona parte dei protagonisti in piena pre-produzione (al posto di Josh Brolin per esempio avrebbe dovuto esserci Pedro Pascal) si capisce come Weapons sia un film che funziona proprio per la bontà della sua storia di base, che si può malleare su volti differenti. In buona sostanza è un mistero con una risoluzione chiara e comprensibile, capace di non cadere nel didascalico, nella lezioncina pedagogica, nell’allegoria o metafora imposta, che cambia sfumature di genere strada facendo, senza rinunciare a un paio di svolte paradossali e a tocchi di humour nerissimo.

 È una buona storia che diventa intrigante proprio per come tiene coperte le sue carte il più possibile, alimentata dall’amore di chi l’ha costruita e ideata per il racconto in sè. L’unico rischio a cui va incontro è che appunto la si approcci con aspettative sproporzionate rispetto a quello che è, complici le ottime recensioni raccolte finora. Più che una grande storia di grande importanza e rilevanza, è una piccola storia raccontata per il gusto di divertire lo spettatore, regalandogli due ore di tensione e qualche salto sulla poltrona (un tempo molto lungo per un horror e senza mai un momento di stanca), nobilitata dalla grande cura e dall’estro del suo creatore, dal cast che ha a disposizione e da un’attenta campagna di marketing.