Una battaglia dopo l’altra è l’unico film che riesce a raccontare cos’è diventata l’America

Nevrotici, sfiduciati, sempre più incaponiti sulle nostre ideologie ma anche salvati dalle famiglie che ci costruiamo: Una battaglia dopo l’altra è il ritratto più vero di chi siamo oggi.

di Elisa Giudici

Difficile dire quale sia il maestro a cui Paul Thomas Anderson guarda con più ammirazione e da cui prende ispirazione, finendo poi per tirar fuori un film che è un’esaltazione della sua maestria: se Thomas Pynchon, i fratelli Coen di Non è un paese per vecchi, Alfred Hitchcock o, in fondo, sé stesso. Da Pynchon, autore di culto celebratissimo dalla critica e considerato uno dei grandissimi maestri statunitensi, Anderson prende il materiale di partenza. Non è la prima volta che lo fa, ma rispetto a Vizio di forma, la sfida è ancora più impegnativa: Vineland (1990) è unanimemente considerato un romanzo infilmabile, per lo stile di scrittura, la complessità dell’intreccio e la polifonia di voci che raccoglie.

Anderson, che qui è impegnato come autore, regista, produttore e direttore della fotografia, pur essendo un grande ammiratore dell’autore, ovvia il problema con una maestria che fa sembrare facile l’operazione di scrittura che fa. Ovvero prendere l’essenza di quel romanzo, quel qualcosa che Pynchon aveva capito dell’identità statunitense per come stava cambiando negli anni ‘80, ma solo nell’accezione che è direttamente correlata al nostro presente. Da lì tira fuori la sua storia, andersoniana fino al midollo e, per la prima volta nel cinema statunitense mainstream, davvero capace di raccontare gli Stati Uniti del secondo mandato di Donald Trump (e, per estensione, buona parte dell’Occidente). Con un avvio con già l’acceleratore pigiato fino in fondo, arrapatissimo, violento, scurrile, con due fronti che si misurano.

Il gruppo rivoluzionario o terrorista (in base alla prospettiva) France 75 assalta un centro di detenzione per migranti, imprigionando i militari presenti e liberando gli irregolari. A comandarlo c’è la spregiudicata, inarrestabile attivista afroamericana Perfidia Berverly Hills (Teyana Taylor), legata sentimentalmente a Ghetto Bob (Leonardo DiCaprio). Dopo la nascita della figlia e il dileguarsi della donna (che ha tradito i compagni per salvarsi), l'uomo è costretto a dileguarsi e cambiare identità. Seguiamo così Bob e la piccola Willa sedici anni più tardi, quando esercito, organizzazioni massoniche e governo si mettono di nuovo sulle loro tracce, con in testa il colonnello Steven J. Lockjaw (Sean Penn). Da una parte il credo militante ossessivo dei rivoluzionari, dall’altra il cocktail di machismo e razzismo delle istituzioni: in mezzo un Leonardo DiCaprio nei panni di un padre che va alla deriva, ubriaco e strafatto, ma ancora abbastanza paranoico da insegnare alla figlia a guardarsi le spalle.

Anderson racconta efficacemente i due fronti in cui sono spaccati gli Stati non più Uniti

Una battaglia dopo l’altra è, da titolo, una lunghissima (oltre centoquaranta minuti), concitata, incalzante sequenza di azioni e reazioni di un padre e una figlia che vengono improvvisamente catapultati nel passato politico di lui e tentano di riunirsi. I personaggi incarnano i due fronti in cui gli Stati Uniti sono spaccati: quello ossessionato dalla purezza caucasica, dall’orientamento sessuale, da una visione della nazione fatta di uomini che complottano in stanze segrete e mamme che fanno pancake al piano di sopra, dall’altra quella paranoica con i tunnel per fuggire sotto il letto, i libri rivoluzioni da mandare a memoria per scambiarsi segnali in codice, la paranoia per il tracciamento tecnologico e il paternalismo istituzionale. Sono due monoliti che si definiscono tanto nella loro identità quanto nella contrapposizione dell’altro, ma Anderson non scorda di mettere ai due lati della barricata ideologica inciampi, incongruenze, imprevisti. Così la dipendenza dai cellulari dei più giovani o la pignoleria di un rivoluzionario un po’ troppo fissato con le parole d’ordine possono fare differenza nell’uno o l’altro senso, così come il militare machista di Penn, camminata a papera e orrendo taglio di capelli a spazzola, che ha una fissazione irrefrenabile (e ricambiata) per la rivoluzionaria afroamericana che nella teoria incarna tutto ciò che vuole distruggere ma nella pratica lo “mette sull’attenti” anche a livello genitale, con la sua sola presenza.

Il modo spietato e brutale in cui una parte dà la caccia all’altra non può che ricordare Non è un paese per vecchi, ovvero uno degli ultimi film mainstream USA a raccontare una certa qual evoluzione dell’identità statunitense. In un momento cinematografico in cui tantissimi autori raccontano il passato recente o remoto per la difficoltà di dire qualcosa di questo presente che angoscia ma mai è semplice da spiegare, Anderson riesce a fare tutto quello che non è riuscito a ottenere Ari Aster col suo Eddingto, per citare il fallimento più recente in questo senso.

Lo fa attraverso i suoi personaggi, certo, ma anche intessendo intorno a loro una serie infinita ai rimandi allo stretto presente che funzionano incredibilmente bene con la storia che racconta. Dettagli come i bambini nel centro dell’ICE che giocano a pallone dentro i reciti, i tre galoppini le cui sagome scure filano via tra i tetti della città mentre infuriano le proteste, dirottate verso la violenza ad arte dagli infiltrati della polizia. Il film si apre non a caso con il camminare nervoso e angosciato di Bob che sfuma in quello di Willa, entrambi su un viadotto da cui si vedere una piccola tendopoli di migranti. Quella di Una battaglia dopo l’altra è un’America che non riesce più a tenere insieme più anime e desidera essere un monolite. Così non riesce più ad essere sia incarnazione di quell’immagine caucasica, religiosa e conservatrice che vorrebbe proiettare e al contempo crogiolo di culture che la tengono in vita e mettono in moto. Il contrasto è tale che finisce per diventare un thriller, un inseguimento infinito ai cui margini rimangono i personaggi “risolti” come sensei Sergio: l’ottimo Benicio Del Toro incarna il direttore di una palestra che facilita l’ingresso di migranti negli Stati Uniti, su base solidale, non economica. Un uomo retto moralmente ma non privo d'ironia, pacato, fedele, quietamente sicuro di ciò che bisogna fare a livello umano e sociale. È l’incarnazione di una terza America, solidale, differente, che rimane sullo sfondo della contrapposizione delle due visioni militarizzate e opposte.

Una battaglia dopo l'altro è il perfetto e contemporaneo contrappunto all'altro capolavoro di Anderson: il petroliere

Dentro questo film infinito che ritrae una nazione in guerra con sé stessa per definire davvero cosa sia e chi la rappresenti, c’è anche una storia familiare: quella di un padre che ha fallito come genitore perché si è lasciato andare, ma nonostante i pericoli e il il cervello fuso dalle droghe, continua a cercare la figlia. Willa è così volitiva, così simile alla madre che l’ha lasciato perché spaventata dall’incasellarsi in una vita borghese, piena di routine e sicurezze che in fondo in fondo Bob vorrebbe e lei no. Eppure Willa, che man mano diventa protagonista della storia, è simile solo a sé stessa, pur dovendo vivere con l’eredità dei genitori e dei loro errori: è la voce della sua generazione nel confronto con le figure paterne che le vengono messe davanti, è l’incarnazione di una speranza di cambiamento e soluzione laddove le generazioni precedenti hanno fallito.

Così Una battaglia dietro l’altra diventa un po’ il contrappunto a Il petroliere, altro film andersoniano basato su un rapporto famigliare che definisce gli Stati Uniti a partire dal nucleo più domestico che li forma. Là però il rapporto padre e figlio era la radice stessa della tensione del film, mentre qui, nonostante Bob sia tutt’altro che un padre ideale, diventa risolutivo proprio grazie al legame con la figlia, alla famiglia che ha costruito in fuga e sotto falsa identità.

È molto andersoniano anche il lunghissimo finale in mezzo al deserto, tra i saliscenti di una strada assolata e isolata in cui Bob e Willa continuano a sfiorarsi e mancarsi, a inseguirsi, confermando la bizzarra ossessione del regista per le scene al volante sui generis, di cui ci aveva dato un piccolo assaggio anche in Liquorice Pizza.

A sorprendere è la scala, la magnitudo da epica di questo film, ambizioso come forse Anderson non era più stato da The Master. Un’ambizione che Anderson rimarca e insegue per esempio anche nell’utilizzo enfatico e a scena aperta dei temi orchestrali composti dal collaboratore di lungo corso Jonny Greenwood. Una magnitudo che si riflette nel formato scelto per il film - girato interamente in VistaVision pellicola 70 millimetri - e in come la storia non ha paura d’indugiare, espandersi e rilanciare per spazi, presenze, spettacolarità.