It: Welcome to Derry non riesce a non rovinare quanto di buono fatto dai film di cui è prequel

La serie HBO Welcome to Derry non ha in sé le idee e i fondi per replicare il successo dei film di cui è prequel e il suo ostinare a provarci quasi ne rovina l'eredità.

di Elisa Giudici

Nell’ormai ricca casistica di tentativi congiunti Warner Bros & HBO di espandere franchise cinematografici in televisione - rendendoli così “crossmediali” - esistono storie di successo di critica e pubblico (The Penguin, Watchmen), serie dignitose ma mai davvero incisive e ben presto dimenticate (Dune: Sisterhood) e clamorosi fallimenti. It: Welcome to Derry (dal 27 ottobre su Sky e NOW) rientra in quest’ultima casistica e non è semplice spiegare perché, considerando che ai recensori di tutto il mondo sono stati forniti solo cinque degli otto episodi di cui è composta la prima stagione e per giunta con una lunghissima lista di svolte di trama poste sotto embargo.

Quel che si può dire, dunque, è cosa la serie vorrebbe essere e perché non è che la più pallida imitazione di quell’ambizione. Ambientata nell’ultimo anno dell’era kennediana, nel pieno dell’America tutta sorrisi e paranoie da Guerra fredda e razzismo ben lontano dall’essere superato, Welcome to Derry ci riporta indietro nel tempo alla ricerca di un difficile equilibrio tra dare al pubblico dell’ultima duologia cinematografica contenuti simili alle due pellicole di successo e trovare un mistero per cui valga la pena di sintonizzarsi ogni settimana per un nuovo episodio.

It: Welcome to Derry ha ambizioni ben superiori ai suoi limiti produttivi

Nella speranza che la continuità artistica assicurasse una continuity qualitativa e narrativa, HBO si è affidata al regista dei due film Andy Muschietti e alla di lui sorella Barbara, qui nel ruolo di produttrice. Questo è già un primo problema, perché evidenzia il limite con cui lotta sin dalle prime scene la serie: ha ambizioni enormi, dato che guarda ai blockbuster cinematografici o a produzioni gigantesche come Stranger Things, ma il suo comunque cospicuo budget semplicemente non permette di muoversi a quei livelli.
È un continuo volere, non potere e quindi nicchiare: c’è per esempio l’attore Bill Skarsgård che torna nei panni di Pennywise ma al contempo non c’è perché a differenza della mitologia kingiana, qui il clown protagonista si fa più che desiderare. Così lo spettatore (della sala) abituato a ritrovare alla fine dell’incubo Pennywise che si trasforma da mostro nella sua versione più nota per ghermire la sua vittima, si ritrova mostri CGI (brutti per natura ma anche per esecuzione) che fanno da segnaposto al cattivo titolare della serie.

Il pilota di Welcome to Derry è un fiasco a cui le puntate successive cercano di rimediare

Serie che prende il via nel modo peggiore: era da tempo che non si vedeva un episodio pilota brutto e respingente come quello che apre Welcome to Derry, che passa le puntate successive a correggere la rotta, rassicurare lo spettatore e trovare uno scopo alla propria storia così mal impostata in partenza. Lo stile di regia di Muschietti ha delle brusche sterzate in territori quasi trash dovuti appunto ai limiti televisivi della produzione, ma anche a come la serie tenti d’inserirsi nell’universo di It prendendo in prestito da tutte le storie kingiane più riuscite e persino da chi a King ha guardato per poi creare il proprio universo.

Se è vero che in alcuni passaggi, giocoforza, i ragazzini protagonisti di Welcome to Derry ricordano quelli di Stranger Things (che guardavano al Losers Club di It tra le loro tante ispirazioni) è anche vero che questa Derry non ha mai l’aria di essere un luogo vero, fisico, con una propria (sinistra) aura come Hawkins. Ci si muove da uno stereotipo scolastico con i bulletti dell’armadietto a fianco a quello di vicinato bianco con rigurgiti di razzismo. Episodi che lasciano stupiti per colme colgano in contropiede la famiglia afroamericana degli Hanlon, che pian piano si rivelerà centrale nella storia anche a quanti non sono lettori di King e non tracciano le immediate associazioni nel suo multiverso letterario all’apparizione del personaggio di Mike o del soldato semplice Dick Hallorann.

Più che misteriosa, Welcome to Derry è inutilmente confusa

Quel che è peggio, il pilota oscilla paurosamente da un registro e uno genere all’altro. Dopo un avvio intrigante, l’elemento orrorifico e disgustoso viene inserito così di malagrazia, seguito da scene di paura portate a casa con una CGI davvero brutta a vedersi, che il tutto risulta fuori posto. Siamo in una storia kingiana con protagonista un gruppo di ragazzini, ma poi finiamo in una sottotrama che riguarda una base militare in cui si fanno strani esperimenti che non sembra c’entrare nulla, salvo poi reinserire a forza l’orrore e via da capo.

Il problema di Welcome to Derry è che, appunto, sappiamo dove andrà a finire, per cui deve creare un mistero che s’inserisca nella storia che già conosciamo, tenendo alta la nostra attenzione. 
Tuttavia la serie più che misteriosa sembra inutilmente confusa, ricolma di brutti sbalzi tonali e di reazioni prive di verosimiglianza da parte dei personaggi, che non possono reagire come sarebbe lecito aspettarsi sennò impedirebbero alla trama di tenere in piedi il mistero di cui ha disperatamente bisogno.

In altre parole Jason Fuchs - cosceneggiatore e produttore del secondo It - non è Stephen King. Non è in grado di creare quell’atmosfera, di portare personaggi inediti e antesignani di nomi dell’universo kingiano ad appassionare davvero lo spettatore, o quantomeno di far uscir di stereotipo gli stessi. Pur essendo affiancato da showrunner di lungo corso come Brad Caleb Kane e Cord Jefferson (che si occupò di Watchmen), il team produttivo e la writing room di Welcome to Derry non riesce a eguagliare il lavoro di una serie di media fascia, figuriamoci quello di un King particolarmente ispirato.

Welcome to Derry non riesce a non rovinare quanto di buono fatto dalla duologia cinematografica

I ragazzini protagonisti (la cui capacità recitativa è molto altalenante) sono facilmente divisibili in buoni stereotipati e cattivi che si meritano gli incubi a cui li sottoporrà Pennywise, rimanendo privi di quella costruzione sofferta e avvincente di King, in cui ogni umano (adolescente o adulto) è la somma degli errori che compie e a cui sopravvive, che pesano come traumi e ne plasmano l’esistenza.

L’errore poi è ancora più a monte: Pennywise è da sempre l’incarnazione clownesca di quel tipo di male assoluto, inesprimibile, invincibile, perché sta dentro l’animo umano. Uno sopravvive alla violenza e ai traumi di quando è bambino, ma Pennywise è una loro manifestazione e, così come quel ricordi, non si può sradicare, vincere fino in fondo. Non ha origini, non ha spiegazioni, non ci puoi ragionare. A ogni nuova apparizione, a ogni nuovo esplorarne le iterazioni pregresse, si finisce col tentare quantomeno di mostrarlo, spiegarlo, il che tende invariabilmente per depotenziarlo.

La serie ha qualche asso nella manica, vedi la bellissima sigla d’apertura, un gioiellino di illustrazioni d’antan che diventano incubi sul sinistro motivetto A Smile and a Ribbon delle Patience and Prudence. La sua lenta risalita lascia una qualche speranza che gli ultimi tre episodi avvolti nel più fitto mistero possano trovare una quadra, tenere insieme tutte le linee narrative ancora molto disordinate e incoerenti e dare una risoluzione a una serie che salta dal razzismo sistemico al lato oscuro dell’America suburbana kennediana agli incubi giovanili di vago sapore freudiano a degli spaventi da poco.

Se la serie avrà successo Muschietti conta di procedere all’indietro nel tempo, tornando prima negli anni ‘30 e poi a inizio del Novecento, portandosi dietro Pennywise. Qui però, per il momento, manca il bersaglio, ovvero quello di non disturbare quanto di buono fatto dai due film, cercando di essere un’aggiunta non rovinosa, anche se di natura accessoria. Invece questa serie (per ora) rimane una sbavatura nel trucco ben definito di Pennywise, che ha alcuni gravi scivoloni clowneschi nel senso meno elogiativo del termine, ma che soprattutto sembra tentare disperatamente di creare una fotocopia poco definita di quanto già visto, sovrapposta in a tante altre pagine della mitologia kingiana e televisiva recente, senza però trovare un suo perché.