The Life of Chuck è un Stephen King molto diverso dal solito, che baratta l’orrore con la meraviglia
Non tutto va per il verso giusto in The Life of Chuck ma conferma due innegabili talenti: quello alla scrittura di King e quello per il racconto visivo di Flanagan.

The Life of Chuck andrebbe visto sapendo il meno possibile a riguardo, un po’ come la vita va vissuta: per quanto uno si prepari, ci sono passaggi inevitabili, gioiosi e tristi, che non conosci davvero finché non li provi in prima persona. Sarebbe innaturale rendere più definita l'attesa dell'inevitabile finale, suggeriscono Flanagan e King.
Basato sulla storia breve contenuta nell’antologia Se scorre il sangue (2020) di Stephen King, The Life of Chuck ne ricalca abbastanza fedelmente l’intreccio, figlio di un’artista e un uomo che ha vissuto una vita intensa, dentro e fuori i suoi romanzi e, giunto all’anzianità, si ritrova a fare i conti attraverso i suoi personaggi con la sua propria mortalità, con quanto fatto e con quanto no.

L'apocalisse tenera e triste di Flanagan e King
Da titolo questa è la storia di Chuck, divisa in tre capitoli, ma raccontata non in ordine cronologico, con delle omissioni volute che lo rendono inizialmente un personaggio quasi sinistro: il mondo sta finendo, o almeno così pare, nella quieta disperazione dell’insegnante Marty Anderson (Chiwetel Ejiofor) e della sua ex moglie e infermiera Felicia Gordon (Karen Gillan).
C’è una triste tenerezza che circonda le loro vite, mentre pian piano, cataclisma dopo disastro, il mondo così come lo conosciamo smette di funzionare e i suoi abitanti di ritrovano a interrogarsi sul senso di andare al lavoro, proseguire la loro routine quotidiana di fronte all’avvicinarsi della fine. C'è chi si suicida (molti), chi continua come niente fosse, chi all'improvviso rompe con la sua routine e scompare, incamminandosi da qualche parte.
Nel film ricorre la teorizzazione dell'astronomo Carl Sagan secondo cui se si riducesse tutta la storia dell’universo nei trecentosessantacinque giorni che compongono il calendario, quanto fatto dall’umanità si ridurrebbe agli ultimi dieci secondi del trentun dicembre. Come può una manciata di secondi contenere quella che percepiamo come un’evoluzione (talvolta un’involuzione) millenaria e senza precedenti?
Il punto della storia sta un po’ tutta lì: nel ritrovare la proporzione della vastità di possibilità e di esperienze che ogni singola persona vive durante la sua esistenza, per quanto grigia e convenzionale. Il poeta Walt Whitman in Canto di me stesso diceva di sé stesso che contenesse moltitudini: King lo prende quasi alla lettera, con una storia che tramuta la violenza, la brutalità e l’orrore che siamo abituati ad aspettarci da lui nella forza che i lutti e le piccole tragedie hanno su di noi. Flanagan fa suo anche il monito della storia: a essere dura è l’attesa dell’inevitabile fine, quando arriverà, ma negarla a sé stessi significa rischiare di non vivere appieno il tempo che si ha a disposizione.

Life of Chuck non riesce a trasformare le sue idee in un film emozionante
Per un film con un messaggio tanto umanista e commovente però The Life of Chuck risulta nel suo avvio quasi affettato. È come se non indovinasse davvero la corda emotiva da pizzicare per far arrivare al cuore dello spettatore quello che sta cercando di raccontare, se non nel terzo e ultimo capitolo che lo compone, quando per Chuck e per il pubblico in sala è forse ormai troppo tardi.
Uno dei passaggi chiave del film un intenso Mark Hamill nei panni del nonno di Chuck tenta di influenzarne la traiettoria di vita (e, dato l’ordine in cui è raccontata la storia, sappiamo già quanto sarà o meno efficace nel farlo). Chuck ha scoperto la danza grazie ai film visti con la nonna ed è entrato nei club di ballo della scuola, scoprendosi molto talentuoso. La danza lo ispira e lo aiuta ad aprirsi. Ha però un altro talento, che il nonno contabile sa quantificare chiaramente: la matematica.
In un lungo dialogo che è un po’ il cuore emotivo del film, un po’ il momento di Hamill di brillare, il nonno spiega al nipote che trova la matematica noiosa come sia in realtà il tessuto stesso dell’universo intero, delle stelle, della danza. Ha ovviamente ragione, vuole di certo convincere il nipote a dedicarsi agli studi matematici abbandonando il sogno inespresso ad alta voce di diventare un ballerino, ma dopo una serata magica al ballo della scuola Chuck riflette su come sì, tutto sia matematica. Nel cielo però ha visto una stella cadente ed è stata la sua “danza” a convincerlo a fare una mossa coraggiosa, che gli ha regalato uno dei momenti più belli della sua vita.
Ecco, The Life of Chuck è esattamente così: consapevole, calcolato, perfetto nell’eleganza dei suoi movimenti di cinepresa e nella sua composizione di ogni singolo fotogramma (Flanagan è un grande narratore per immagini), ma al contempo fatica a tirare dentro il cuore, il sentimento, lo slancio emotivo. È tutto matematica e poco danza, nonostante sia pieno di passaggi emotivamente teneri, familiari, toccanti. Si sente c’è dietro qualcuno che sulla fine (personale e del mondo) è abituato a raccontarla sin dai tempi di Midnight Mass. Qualcosa però a livello tonale proprio non va e laddove dovrebbe essere potentissimo, lascia educatamente composti e vagamente ammirati sulla poltroncina del cinema.

Questo nonostante abbia a disposizione un cast molto capace, anche tra le giovanissime leve, per giunta chiamato a lavorare in sottrazione, parlando quietamente di sentimenti e domande esistenziali, angosce talvolta gigantesche, da ridurre nel quotidiano. In un sfoggio di bravura collettiva finisce per scomparire un po’ Tom Hiddelstone, pur essendo il protagonista titolare della storia.
Rating: TBA
Nazione: Stati Uniti
Voto
Redazione

The Life of Chuck
L’accoppiata Stephen King e Mike Flanagan stavolta funziona soprattutto dal lato della scrittura. The Life of Chuck avrebbe il potenziale per essere un film potente ed emozionale nel suo essere sicuramente differente dal “solito” King (uno scrittore che davvero contiene moltitudini) ma la pellicola non "indovina" mai la corta emotiva giusta per potenziare al meglio la sua storia emozionante e umanista. Ci riesce solo nella terza parte, dopo parecchi passaggi difficoltosi.
Concettualmente è un film con tantissimo da raccontare, ma stavolta Mike Flanagan fatica trasformare la forza della scrittura di King in grandi immagini.


