Suzume, recensione: i traumi del Giappone e la prigione creativa di Makoto Shinkai Suzume

Bello da togliere il fiato, potente, ma incapace di sfruttare fino in fondo le possibilità di una storia grandiosa: Makoto Shinkai con Suzume tasta i confini della prigione creativa in cui si è rinchiuso.

Suzume recensione i traumi del Giappone e la prigione creativa di Makoto Shinkai Suzume

Vedendo Suzume, film emozionale che fa i conti con un trauma recente e incancellabile della storia giapponese recente, non ho potuto che pensare a una vecchia intervista della scrittrice Banana Yoshimoto. Nella stessa la scrittrice spiegava che, ispirazione o no, i contatti con la casa editrice e i legami con il gruppo di lavoro che dipendeva da lei le imponeva di dare alle stampe un romanzo con cadenza regolare, portando a un’inevitabile ripetizioni di temi, messaggi, forme. È quanto sta accadendo con Makoto Shinkai.

La storia professionale di Makoto Shinkai è paradossale e pervasa di una triste ironia. Oggi celebrato regista giapponese d’animazione a livello internazionale, si è fatto notare a partire da una scelta quasi inconcepibile per il mercato e l’etica giapponese: licenziarsi dal suo posto di lavoro e mettersi a produrre prodotti d’animazione in proprio, realizzando tutto, dall’inizio alla fine. Solo lui, le sue idee e un personal computer.

Il cinema, in particolare quello d’animazione, ha in sé una natura collettiva e condivisa nella sua realizzazione: sullo schermo vediamo lo sforzo degli attori, ma sappiamo che intorno a loro c’è un gruppo di persone al lavoro senza cui i lungometraggi difficilmente vedrebbero la luce. L’animazione tradizionale e quella digitale richiedono similmente una grande quantità di persone esperte a livello professionale in tecniche e lavorazioni differenti per mettere insieme un prodotto finito all’altezza delle aspettative del pubblico. Specie se, come in Suzume, ci si muove ai livelli più alti di resa tecnica possibili oggi, realizzando qualcosa di molto vicino allo stato dell’arte dell’animazione digitale.

Suzume, recensione: i traumi del Giappone e la prigione creativa di Makoto Shinkai Suzume

In Giappone poi il concetto di “superiore” con maggior grado d’anzianità e di aziendalismo portato a livelli familiari e personali è così forte che Makoto Shinkai si è fatto per lungo tempo la fama del freak, quando non del pazzoide. Il successo delle sue prime opere autoprodotte gli ha poi concesso di creare una realtà sua e di stabilire un suo metodo di lavoro, elaborato insieme a un fidatissimo gruppo di professionisti (animatori, musicisti, doppiatori) che tende a rinnovarsi film dopo film.

Con il successo strepitoso di your name. la pressione è poi aumentata. Makoto Shinkai non si è mai fermato,continuando a produrre lungometraggi figli di un sistema ormai standardizzato di produzione. Insomma, è scappato dalle logiche della vita d’ufficio e delle aziende per poi rimanere intrappolato in una realtà simile, ma da lui capitanata.

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Di cosa parla Suzume

La protagonista di Suzume è l’omonima adolescente che vive nel sud dell’arcipelago giapponese, ospite della zia. Suzume ha perso la madre tempo prima e ora conduce una normale vita di studentessa. Ogni mattina inforca la bici, pedala verso scuola e dopo le lezioni torna a casa.

Tutta cambia dopo il fatidico “incontro del destino”, immancabile snodo di trama di ogni film di Makoto Shinkai. Suzume incontra per strada un bel forestiero che sembra impegnato a fare del trekking. ll ragazzo le chiede se ci siano rovine nei dintorni e lei gliele indica. Un’inspiegabile presagio la porta a recarsi alle rovine della fonte termale che ha indicato allo sconosciuto. Qui vede una porta, da cui emerge una spaventosa creatura.

Lo sconosciuto riesce a cacciare la creatura oltre la soglia e a chiudere la porta. Sōta spiega a Suzume di essere un Chiudiporta, ovvero una delle persone che percorrono il Giappone richiudendo i varchi attraverso cui il Verme tenta di arrivare nel nostro mondo, provocando catastrofi e terremoti.

Senza saperlo Suzume ha rimosso un manufatto che garantiva la stabilità del sistema. Un misterioso gattino di nome Daijin ha inoltre maledetto Sōta, rinchiudendone lo spirito in una seggiolina legata al passato di Suzume. La ragazza così si ritrova a inseguire Daijin per mezzo Giappone, seguendo i suoi spostamenti via social e avvistamenti, portandosi dietro Sōta-sediolina. Il gattino sta risalendo l’arcipelago giapponese, provocando l’apertura di numerose porte e continui attacchi del Verme.

Suzume è dunque l’ennesimo film di Makoto Shinkai di matrice fantastica, che ha a suo centro il racconto del difficile equilibrio tra società umana e disastri naturali. Stavolta però il riferimento è diretto ed esplicito: nel riavvolgere e risistemare lo scorrimento cronologico degli eventi, Shinkai mostra una data: 11 marzo 2011, giorno in cui si scatenò il terremoto e il conseguente tsunami nel Tohoku, uccidendo, ferendo e traumatizzando decine di migliaia di Giapponesi.

Shinkai dunque tenta di raccontare un trauma personale e una ferita collettiva per il suo paese, rendendo la sua protagonista simbolo sia della capacità di continuare a vivere, sia testimone di quanta difficoltà possa richiedere farlo, anche a distanza di anni.

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Cosa funziona e cosa no in Suzume

Date queste premesse, è evidente quanto Suzume sia un film emotivamente forte, che rende esplicito e radicato nel Giappone contemporaneo un messaggio ecologico prima più universale e indiretto.

L’ambiente, l’ecologia e la fenomenologia dei disastri naturali sono da sempre parte del cinema di Shinkai, ma stavolta il regista crea una vera e propria mappa, con tante tappe quanti eventi da sventare o ricordare. La sua è comunque una visione positiva e antropocentrica: i disastri non sono tanto ascrivibili all’azione umana, quanto all’incuria che gli umani lasciano dietro di sé quando abbandonano un luogo. La natura non è mai crudele nel cinema di Shinkai, perché è sempre filtrata attraverso l’ottica del shintoismo, attraverso la convinzione che ogni cosa o luogo possegga uno spirito che vada al limite placato.

Il legame con lo shintoismo era esplicito in your name., lo è meno per il pubblico occidentale in Suzume. I riferimenti legati ai templi nipponici e alla figura delle maiko (le sacerdotesse giapponesi) sono persi nell’inevitabile lost in traslation dei caratteri giapponesi che compongono i nomi dei personaggi e l’arte dei Chiudiporta.

Nonostante questo, Suzume è un viaggio davvero affascinante attraverso il Giappone, percorso da un sentimento di lieve inquietudine continua. Suzume viaggia verso nord incontrando persone differenti ed esplorando realtà a lei lontane e intrinsecamente giapponesi. Tuttavia questo road movie è un orologio che ticchetta un conto alla rovescia: Suzume non sta scappando di casa, non sta facendo un viaggio di piacere. Le sue tappe sono cadenzate al ritmo di un’imminente catastrofe che potrebbe abbattersi ovunque Daijin aprirà una porta.

Le scene di Suzume incentrare su questo lato della trama e sul passato della ragazza sono potenti, memorabili. Consegnano la visione di un paese meraviglioso che vive sempre in bilico sull’orlo di un disastro che non può percepire né prevedere, ma che può sempre accadere. Il sistema delle porte, ancorché non sempre coerente, è un’indovinata resa visiva del vivere in un luogo a forte rischio sismico, in cui tutti in prima persona o come testimoni hanno vissuto un’esperienza distruttiva e devastante e in cui bisogna trovare il modo di andare avanti, anche se nulla può assicurare che un evento simile non si ripeta.

Makoto Shinkai però chiude la porta in faccia alla potenza stessa del suo racconto, tagliando le gambe alla storia. Difficile capire esattamente perché. Uno dei motivi principali sembra stare nella natura rigidamente codificata e scadenzata del suo metodo di lavoro. Se devi realizzare un film ogni 3 o 4 anni, non hai modo di prendere più tempo del previsto quando la storia richiederebbe maggior respiro o maggior tempo per decidere come raccontarla.

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Di conseguenza ci si affida a uno schema e a un gruppo di lavoro collaudatissimi, ripetendo canoni già noti e stranoti. Di fatto Suzume tenta di prende spazio ed esplodere nel continuo susseguirsi dei tormentoni stilistici di Shinkai. Non c’è tempo di elaborare il trauma di Suzume, perché bisogna inserire il lato romantico della storia. Non c’è modo di concentrarsi sul presente perché è necessario inserire ed esplorare un loop temporale di qualche tipo. Non c’è modo di dare un aspetto distintivo alla pellicola perché la palette di colori, la resa cromatica e stilistica dei fondali naturali e dei cieli stellati, persino delle canzoni della colonna sonora (ancora una volta cantate dai RADWIMPS) sono già conficcate come paletti nel percorso obbligato del film.

Suzume invece era una storia che meritava di svilupparsi in modo suo, di trovare altre scene iconiche, altre palette cromatiche, altre soluzioni narrative per raccontare la sua storia. Particolarmente mortificante poi è lo sviluppo mancato dei personaggi. Suzume, Sōta e gli altri sono quasi sacerdoti laici, figure sacrificali che si muovono come richiesto dalla storia, senza mai mettere in dubbio la loro missione, senza mai esprimere un briciolo di personalità, di carattere, mondati persino del fanservice che dava a your name. un po’ di malizia e di verve.

Il dettaglio più intrigante di Suzume è l’ossessione di Makoto Shinkai per le code di cavallo delle sue protagoniste.Suzume è ancor più priva di carattere e aspirazioni delle protagoniste che l’hanno preceduta: una crocerossina di nome e di fatto. Il suo trauma viene risolto come un passaggio di trama come tutti gli altri, perché a un personaggio di questo tipo non si può concedere che lo struggimento, la ribellione e il dolore durino più di quanto strettamente funzionale al film.

Suzume

Rating: Tutti

Durata: 122'

Nazione: Giappone

7

Voto

Redazione

TISCALItestatapng

Suzume

Makoto Shinkai aveva per le mani un grande film, ma il sistema che ha messo in piedi per continuare a produrre in maniera continuativa e ad alto livello i suoi lungometraggi animati sembra impedirgli di evolversi, cambiare e tirare fuori il meglio dalle sue stesse idee. Suzume è splendido a livello visivo e tecnico, ma non è il film grandioso, il capolavoro della maturità del suo regista che poteva aspirare a diventare. Che peccato.