Stephen: nella mente del serial killer - la recensione del thriller Netflix

La nuova esclusiva indiana del catalogo Netflix vede protagonista un serial killer reo confesso di nove delitti, mentre una psicologa cerca di scoprire di più sul suo passato.

di Maurizio Encari

Il protagonista Stephen Jebaraj si presenta volontariamente in una stazione di polizia per confessare l'omicidio di nove giovani donne. L'uomo, apparentemente impassibile, fornisce dettagli precisi sui suoi crimini, raccontando come tutte le vittime fossero delle aspiranti attrici attirate con l'opportunità di finti provini cinematografici e poi brutalmente uccise. Una scelta narrativa che sembra mettere subito le cose in chiaro: non ci sarà caccia all'uomo, non ci sarà mistero sull'identità dell'assassino, giacché lo stesso Stephen si consegna alla giustizia nelle primissime scene.

La vera indagine non riguarda allora il "chi" ma il perché e il come. L'investigatore Michael affida il caso alla psichiatra criminale Seema, incaricata di valutare lo stato mentale del reo confesso per determinare se sia mentalmente capace o meno di affrontare un processo. Attraverso una serie di sessioni di valutazione psicologica, Seema tenta di penetrare nella mente del killer, cercando di comprendere cosa lo abbia spinto a quella carneficina. Ma più si addentra nei ricordi del paziente, più si rende conto che nulla è come sembra: le contraddizioni si accumulano, le versioni cambiano, e quello che doveva essere un'analisi clinica diventa progressivamente una discesa in un labirinto mentale dove realtà e finzione si confondono.

Stephen: essere o non essere

Ed è così che la sceneggiatura procede attraverso una serie di flashback che si alternano al presente, accompagnandoci in quell'infanzia segnata da una madre tirannica e da un padre soggiogato, per una situazione domestica non certo semplice che ha inevitabilmente compromesso l'emotività del protagonista. Il giovane regista Mithun, anche co-autore dello script, ha scelto per il suo debutto dietro la macchina da presa uno spartito narrativo particolarmente insidioso, quello del thriller psicologico che gioca sull'affidabilità del narratore e sulla natura soggettiva della verità.

Fin dalle scene iniziali sembra avere le idee chiare, con l'intenzione ben precisa di quale atmosfera si intenda costruire per le successive due ore di visione: claustrofobica, opprimente, pervasa da un senso di minaccia strisciante e da un alone paranoico che non abbandona mai il destino dei personaggi, esplodendo in feroci scatti di violenza qua e là.

La regia privilegia inquadrature strette sui volti, spazi angusti che amplificano il senso di intrappolamento psicologico, e una palette cromatica desaturata dove dominano grigi, blu scuri e ombre profonde, con un frequente uso dello split-screen a esacerbare ulteriormente questo feeling di macabra inquietudine. L'ambizione è palpabile, ma risulta forse eccessiva per un'opera prima.

Il troppo stroppia?

Non è un caso che diversi passaggi risultino sovraccarichi, non soltanto dal punto di vista stilistico rischiando di nascondere le sottigliezze insite nella trama, ma anche e soprattutto nella gestione delle dinamiche tra le varie figure coinvolte e dei relativi attori: tra overacting e scarsità di materiale di background a disposizione, il cast pare procedere spesso per conto proprio, a cominciare da quel Gomathi Shankar che da co-sceneggiatore e nel ruolo principale si regala un "assolo" finale che conferma ulteriormente quanto abbiamo appena scritto.

Il ritmo è deliberatamente lento nella prima parte, salvo poi accelerare drasticamente nel terzo atto, moltiplicando rivelazioni e colpi di scena fino a quanto tutti i nodi non vengono infine al pettine. La ricerca dell'effetto shock a tutti i costi finisce però per compromettere la verosimiglianza della vicenda e qualsiasi potenziale legame empatico creato in precedenza con il killer, segnato da un'esistenza ricca di violenze, viene meno, trascinando il film in soluzioni più gratuite che effettivamente necessarie.