Lo Spietato

Raccontare la malavita è sempre stato un tema in grado di affascinare il mondo del cinema. Registi, attori, sceneggiatori hanno costruito (...o ricostruito) storie in grado persino di omaggiare alcune figure che tutto erano, tranne che bravi ragazzi (piccola citazione, concedetecela).

In questo filone, alimentato nell’ultimo periodo anche dalla nuova stagione di Gomorra e dalla seconda stagione di Suburra, si inserisce il film di Renato De Maria. Un prodotto che pur condividendo gli intenti, sceglie una strada ben diversa e sulla carta potenzialmente più intrigante: l’omaggio.

Tratto dal romanzo Gangster Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, il lungometraggio made in Netflix è un affresco deciso e voluto della “Milano da bere” in pieno boom economico, all’interno della quale vengono omaggiati tantissimi film del filone poliziesco anni 70/80.

La storia è quella di un giovane ragazzo calabrese, Santo Russo (Riccardo Scamarcio) che, insieme alla famiglia, emigra nel nord Italia in cerca di fortuna, trasferendosi più precisamente a Buccinasco, alle porte di Milano. Fortuna che sembra però spingerlo verso la malavita. I primi furti, le prime esperienze in carcere e una serie di costante discesa negli inferi che lo porterà a compiere: rapine, estorsioni, sequestri, spaccio e gli inevitabili omicidi.

La sua banda non sarà l’unica famiglia che Santo imparerà ad amare; all’interno del suo sogno borghese si inseriranno la moglie Mariangela (Sara Serraiocco) e l’amante Annabelle (Marie-Ange Casta). Due anime differenti e contrastanti, specchio dei grandi contrasti che lo stesso Scamarcio cerca di trasmettere allo spettatore interpretando Santo. Da una parte i valori del sud, dall’altro la libertina intraprendenza di una città che sta esplodendo economicamente.

Lo Spietato

Un’evoluzione che viene però gestita male, andando in alcune occasioni ad invalidare il buon lavoro fatto sia da Scamarcio sul suo personaggio (per quanto caricaturale in alcuni passaggi, il lavoro sull’accento forzato è molto buono), quanto dal regista con la scelta di alcune inquadrature, colori e musiche che omaggiano perfettamente il genere di riferimento.

A fallire - termine più che mai appropriato - è la sceneggiatura che corre tanto, troppo. Una storia che sfruttando il voice over dello stesso protagonista, rimbalza in maniera scostante, saltando alcuni passaggi che andavano necessariamente approfonditi e soffermandosi su altri del tutto superflui all’evoluzione della storia e del personaggio. Scelte che si percepiscono in maniera piuttosto lapalissiana durante la visione, rendendo Lo Spietato un film che poteva ambire a ben altri risultati, ma che rimane ancora dietro ad un concetto e ad un’idea che non trova mai il modo di sbocciare pienamente.

Un disappunto che si fa ancora più concreto, quando, in alcuni passaggi simbolici, si sente proprio mancare lo spessore narrativo del momento, troppo spesso legato ad un comodo e sbrigativo commento della voce narrante che chiude frettolosamente dei passaggi importanti della vita di Russo.

Quello che rimane, quindi, è un prodotto in grado di intrattenere per due ore lo spettatore, con una buona prova di Scamarcio e una storia che, pur lasciandovi un po’ l’amaro in bocca, potrebbe anche divertirvi e farvi riflettere. La rabbia e il rammarico rimangono perché Santo Russo era e rimane un personaggio affascinante che meritava un pizzico di cura maggiore da parte degli sceneggiatori.