L'isola dei Cani

Isle of Dog ha aperto quest’anno la Berlinale 68 (vincendo tra l’altro l’orso d’argento per la regia), uno dei festival di cinema più importanti al mondo. Una scelta coraggiosa, se così vogliamo vederla, perché si tratta di un lungometraggio in stop motion, che racconta il rapporto tra uomo e cane, tornato di modo dopo film come Pets o Frankenweenie.

Un rapporto speciale

Wes Anderson, tra tutti i cineasti contemporanei, è probabilmente quello che più di ogni altro porta all’interno dei suoi film un vero e proprio marchio di fabbrica. Uno stile riconoscibilissimo, che demarca una linea netta tra gli spettatori che lo amano e quelli che invece non riescono ad apprezzare uno stile a metà tra il naïf e l’anticonformista.

E a ben guardare, il ritorno allo stop motion dopo quel piccolo gioiello di Fantastic Mr.Fox è una sorta di manifesto che lo stesso Anderson regala al suo modo di fare cinema. La possibilità di lavorare su modelli di fantasia ha permesso al regista del Texas di accentuare ulteriormente quella sorta di surrealismo tipico del suo modo di intendere la settima Arte con situazioni che, il più delle volte, offrono allo spettatore l’esatto contrario di quello che sarebbe legittimo aspettarsi.

La storia, ambientata nel 2037, è quella di Atari Kobayashi un ragazzo che ha perso i genitori e che vive all’interno di una prefettura del Giappone, in cui una legge ha costretto i cani a vivere emarginati sull’isola dei rifiuti, tacciati di essere portatori di una pericolosa malattia chiamata “Influenza canina”. Il nostro protagonista si avventurerà sull’isola alla ricerca del suo cane Spots e dove farà la conoscenza di un gruppo di cani parlanti che lo aiuteranno a trovare il quadrupede amico.

Una storia tanto semplice quanto ardita nel modo in cui viene raccontata. Isle of Dog “gioca” sul più semplice dei sentimenti: l’amore che un cane prova nei confronti del suo padrone. Attorno a questo concetto Anderson costruisce un film che osa sotto tutti gli aspetti possibili ed immaginali: dalle inquadrature, al sonoro, sino alla recitazione corporea e parlata.

Lo stop-motion sembra a tratti il territorio che più di ogni altro da' al regista la possibilità di sperimentare tutto quello che gli passa per la testa, passando da una comicità quasi da cartone per bambini, sfruttando però una mimica minimalista e quasi monocorde.

Diciamo quasi, perché dietro a quella scorza apparentemente piatta fatta di posture rigide, movimenti minimali e dialoghi secchi, c’è in realtà la comunicazione di sentimenti veri, genuini, lontani da qualsivoglia banalità, a partire dal modo in cui i cani sono rappresentati: denutriti, spelacchiati e palesemente malati.Non c'è ostentazione, ma al contrario, la volontà di raccontare una storia attraverso la semplicità che può spiazzare.

Ed è proprio in questo ultimo punto che sta la forza de L’isola dei Cani, nel suo essere genuinamente imprevedibile, e di arrivare - senza neanche accorgersene - dritto al cuore. Ci sentiremo tutti un po’ Atari Kobayashi e insieme a lui, ci avventureremo all’interno di una avventura che rende onore al modo di fare cinema di Anderson. Il tutto è ovviamente accompagnato da una scelta cromatica precisa e costante, da una colonna sonora in pieno stile giapponese e da un cast ricchissimo, che può contare sulle voci di Brian Cranston, Scarlett Johansson, Edward Norton, Frances McDorman, Jeff Goldblum e ovviamente l’immancabile Bill Murray (che ha ritirato il premio per Anderson a Berlino).