Film come Jay Kelly sono il motivo per cui Hollywood è in crisi: la recensione del film con George Clooney e Adam Sandler
Noah Baumbach delude con Jay Kelly, un racconto di una Hollywood incapace di vedere le proprie contraddizioni senza romanticizzarle, in un film sin troppo assolutorio.
In un’intervista a Variety il regista Noah Baumbach ha rivelato come l’insuccesso inaspettato di The White Noise (titolo Netflix con un grande cast e grandi aspirazioni subito caduto nel dimenticatoio) abbia rischiato di essere un colpo senza ritorno per la sua carriera. Dopo l’intenso Storia di un matrimonio, quell’impasse gli è risultata quasi fatale, dunque. Jay Kelly, il suo ritorno dopo quel passo falso, probabilmente non rischia di essere così pericoloso, ma solo perché assolve egregiamente alla sua funzione mai troppo nascosta di fornire ai suoi protagonisti George Clooney e Adam Sandler un veicolo per aspirare a essere notati e nominati durante la stagione dei premi. La corsa alla nomination per Sandler in realtà è già partita da settimane, con Clooney e altri colleghi che si sono premuniti di ricordare mezzo stampa quanto sia un “vero” attore “serio”, sottovalutato a causa dei suoi successi commerciali e delle commedie demenziali che l’hanno portato al successo.
È questo il mondo che Jay Kelly aspirerebbe a raccontare: quello di una Hollywood che costruisce personaggi e persone, in cui dietro a ogni star di prima grandezza che un folto entourage che faccia apparire tutto ciò che fa e dice perfetto e naturale. Una Hollywood in cui il tuo agente e la tua PR oscillano tra essere tuoi dipendenti, amici e babysitter, costantemente costretti a mettere in pausa le loro vite personali per star dietro all’immagine pubblica della star gestita come una sorta d’impresa commerciale.
Chi è Jay Kelly, l’ultima star di Hollywood secondo Noah Baumbach
La star in questione, Jay Kelly, è interpretata da George Clooney in quella modalità divenuta così comune oggi di personaggio fittizio che diventa quasi un proxy del suo interprete. Lo status di stella di prima grandezza, la notorietà globale, il fascino impeccabile alla Cary Grant e un montaggio dei successi di Jay Kelly che contiene sequenze dei film girati da Clooney stesso: è quel livello di metacinema che sembra ormai imprescindibile oggi in questo tipo di racconti. Potrebbe essere interessante, considerando che Jay sta attraversando una crisi d’identità, o forse di mezza età: appena finite le riprese di un film scopre che la figlia adolescente non trascorrerà l’estate con lui e decide di inseguirla in Europa, in Francia prima e poi in Italia, costringendo il suo entourage a mollare le proprie vite per l’ennesima volta e seguirlo nella sua crisi esistenziale.
Crisi acuita dalla morte improvvisa del regista che l’ha lanciato e dall’incontro con un vecchio amico della scuola di recitazione. Eventi che spingono Kelly a un amarcord personale e professionale continua, con Clooney che scivola sui set e ai provini con il sé stesso giovane che vive il suo colpo di fortuna, rileggendo vecchie situazioni e lasciandoci il dubbio che forse non sia l’eroe e l’uomo buono che Hollywood vende al mondo da decenni. Il suo primo ruolo importante per esempio l’ha conquistato a discapito di un amico, mentre le sue due famiglie e rispettiva prole sono abituate a non considerarlo un padre presente, a vederlo “solo” ma circondato di assistenti e agenti. Kelly insomma scopre all’improvviso di essere solo alla consegna di un tributo alla sua carriera in Toscana, mentre anche Laura Dern e Adam Sandler nei panni dei suoi fidati agenti si trovano a valutare quanto è costato loro in termini umani mantenere inalterato il successo dell’assistito.
Jay Kelly parla di una Hollywood scevra dai problemi che l'affliggono nel presente
Sulla carta sarebbe un film enormemente interessante, se facesse anche solo una delle cose che è lecito attendersi date le premesse senza un preventivo atteggiamento auto-assolutorio, combinato a una gigioneria senza pari, aggravata dalla presenza di Clooney nei panni compiaciuti di sé stesso. Per ogni stoccata che il film infligge, per ogni momento di dubbio sull’integrità che pone su Kelly (vedi la scena in cui la figlia via analista gli rivela quanto sia stato traumatizzante vederlo essere un buon padre in un film) la pellicola si premura subito di rinforzare la nostra consapevolezza che ovviamente Kelly è una persona buona, ovviamente la sofferenza che ha causato è stata non intenzionale, con un approccio che dovrebbe problematizzare la costruzione stessa del sistema Hollywood e finisce per risultare quasi masturbatoria.
È un film che non riflette la Hollywood di oggi, dove di star vere e proprie ne sono rimaste pochissime, preferendo stereotipi senza tempo e ormai senza senso. Approccio che purtroppo ricorre anche nella lunga parentesi italiana e toscana del film, dove non non potevano mancare tutti quegli stilemi d’Italia guascona e popolata da preti in abito talare e nonnine furbe, capitanati da una Alba Rohrwacher a ci tocca l’ingrato compito della macchietta italiana.
Qua e là c’è qualche scena emotivamente intensa, qualche battuta in cui emerge la verve di Baumbach scrittore, che qui è affiancato da Emily Mortimer nella stesura di una sceneggiatura che riesce spesso a scegliere la strada più prevedibile e banale nel raccontare l’improvvisa solitudine del protagonista. Clooney tra l’altro, seppur credibile, rimane incapace di dare una vera intensità drammatica al personaggio, smettendo raramente i panni del perfetto gentiluomo e star gentile e accomodante. D’altronde se Jay è il protagonista del film, il Roy di Adam Sandler è il cuore emotivo della pellicola e il punto dell’intera operazione: un ruolo comprensivo, compassionevole e a sua volta disperato con cui attrarre i favori fell’Academy, da sempre parziale rispetto ai film incentrati sulla propria industria.
Sfortuna vuole che temporalmente Jay Kelly arrivi per giunta dopo un prodotto televisivo che partendo dalle stesse premesse e con gli stessi obiettivi, è infinitamente più incisivo e convincente: The Studio di Apple TV+, con Seth Rogen nei panni di un produttore esecutivo a capo di uno studio. Tanto questa serie con garbo riesce comunque a essere non solo una lettera d’amore a Hollywood ma anche una critica puntuale alle sue storture e alle sue ipocrisie, tanto Jay Kelly fallisce miseramente questo compito, rimanendo poco più di una fantasia che imbastisce passaggi (melo)drammatici senza mai affondare davvero il colpo**, con un intreccio narrativo incapace di raccontare le specificità del presente.