Don't Move: la recensione del thriller di Netflix prodotto da Sam Raimi
Un meccanismo inedito per un film non originale ma ben realizzato
Giusto ieri, commentando il famoso sondaggio su quale attore potrebbe essere il protagonista di American Psycho, visto che Luca Guadagnino ha annunciato di voler trarre un nuovo film dal romanzo, ho scritto:
Chiunque l’abbia visto in American Horror Story, sa che Finn Wittrock sarebbe all’altezza del ruolo.
E stamattina, all’arrivo di Don’t Move su Netflix, mentre una donna medita di prendere la decisione più difficile della sua vita - continuare a vivere - eccolo arrivare. Finn Wittrock. Col suo insospettabile sorriso e quella faccia da bravo ragazzo che cambia in un istante.
La trama di Don’t Move
L’idea naturalmente non è nuova: da Monkey Shines di Romero a Il collezionista di ossa, passando per Midsommar e l’indimenticabile capolavoro di Wes Craven, Il serpente e l’arcobaleno, l’idea di una vittima impossibilitata a muovere un muscolo per difendersi è stata sfruttata decine di volte.
Qui, però, c’è il background a fare la differenza. In Don’t Move, Iris capisce di voler lottare quando non credeva di volerlo o poterlo fare ancora.
L’evidenza di riscoprire la propria forza, in una parabola di rinascita, non è tanto un’idea femminista, come qualcuno scriverà, quanto il tentativo di dimostrare che le persone - uomini o donne, perché anche Richard non scherza - hanno risorse inaspettate. Risorse che nemmeno loro sospettavano di possedere.
Don’t Move non sarà una prova di originalità, quindi, ma è molto ben recitato, non fa l’errore di chiudersi in un clima di claustrofobia che non funzionerebbe introducendo altri personaggi e ci racconta aneddoti apparentemente inquietanti sui protagonisti per poi servirsene nel finale. Scontato, magari - si poteva fare una scelta molto più coraggiosa - ma perfettamente in linea con la narrazione.
Narrazione turbata in un paio di occasioni da scene abbastanza truculente. Siete avvisati.