Il Mostro senza mostro: Stefano Sollima e il suo team raccontano il dietro le quinte e la genesi della serie Neflix
Il Mostro è una miniserie tesa e documentata che ripercorre la nascita del mito criminale del Mostro di Firenze, partendo dalla cosiddetta “pista sarda”.
Raccontare il Mostro di Firenze senza cadere nella trappola delle teorie, delle ossessioni e dei processi mediatici: è questa la sfida che i co-creatori dello show Il Mostro (miniserie di cui potete leggere qui la recensione, che celebra il decennale dall’arrivo di Netflix in Italia) Stefano Sollima e Leonardo Fasoli si sono posti con la nuova miniserie crime dedicata al caso di cronaca più inquietante del Novecento italiano. Un progetto che mescola fedeltà storica e tensione cinematografica, con l’obiettivo di riportare al centro i fatti processuali e storici — spogliati di interpretazioni e pregiudizi nati in anni e anni di “mostrologia” — e restituire il clima, le paure e le contraddizioni dell’Italia ddagli anni ‘50 aglii ‘80, quando andò formandosi l’idea che ci fosse un serial killer che prendeva di mira le coppiette nel territorio toscano.
Alla presentazione della miniserie alla Mostra del Cinema di Venezia, Gamesurf ha avuto l’occasione di sentirla raccontata in prima persona dai tre principali responsabili delle scelte creative che l’hanno resa così come la vediamo oggi Netflix:
- Stefano Sollima, regista e co-creatore della serie
- Leonardo Fasoli, co-creatore e sceneggiatore
- Francesco Cappelletti, consulente storico
Gli showrunner Sollima, Fasoli e il consulente storico Francesco Cappelletti hanno raccontato alla stampa presente come è nato il progetto, il rigore con cui è stato ricostruito ogni dettaglio e la difficoltà di confrontarsi con una ferita ancora aperta nella memoria collettiva.
Come mai la miniserie è interamente dedicata alla cosiddetta “pista sarda”?
Stefano Sollima - Tutto è cominciato leggendo i libri scritti dagli investigatori, le inchieste giornalistiche e tutto l'incredibile materiale giudiziario e processuale sul caso. Ci siamo resi conto che tutto era, non dico inquinato, ma viziato da un peccato originale: ogni documento partiva da una tesi preconcetta, piegando la realtà all'esigenza di dimostrare una teoria. Allora ci siamo posti il problema di come raccontare una storia così complessa. In questo processo di riordino, ci è sembrato doveroso ricominciare la storia dall'inizio, e la "pista sarda" è stata la prima delle grandi indagini sul caso.
Leonardo Fasoli - La vicenda era complessa e c’erano tanti delitti attribuiti al Mostro da cui avremmo potuto far partire il nostro racconto. Alla fine siamo partiti da quel momento storico, da quel fatto di cronaca nera da dove è nata l'idea stessa dell’assassino seriale: prima non c’era una visione d’insieme e il concetto stesso di serial killer era sconosciuto al pubblico italiano.
Perché la vostra serie non esprime mai un giudizio su chi possa essere davvero il colpevole?
Stefano Sollima - Il nostro lavoro di ricerca partiva dal presupposto di non voler mai dare una risposta, ma piuttosto di porre domande intelligenti. Il piacere di vedere un'opera, per me, non è trovare risposte, ma tornare a casa e continuare a pensarci e a dibattere.
Del vostro Mostro stupisce la quasi totale assenza di volti familiari al grande pubblico.
Stefano Sollima - Il cast è stato scelto in base alle esigenze del racconto: la "pista sarda" richiedeva una specificità linguistica e culturale, quindi abbiamo scelto bravissimi attori sardi.
Anche se sono passati alcuni decenni, molti dei testimoni, degli investigatori e dei diretti interessati sono ancora vivi. Avete parlato con i parenti delle vittime?
Stefano Sollima - Abbiamo incontrato praticamente tutti tranne i parenti diretti delle vittime. Ci sembrava di far rivivere inutilmente un dolore, dato che le testimonianze e i dati che avevamo erano già ampiamente sufficienti. È stata una questione di rispetto. Non aveva senso chiedere a un padre cosa ha provato perdendo una figlia. Abbiamo parlato, ad esempio, con la sorella di una delle vittime, che di fatto ha riaperto il caso, e con Natalino Mele, il bambino testimone.
Leonardo Fasoli - Ci siamo assunti la responsabilità di usare i nomi veri, e tutto ciò che raccontiamo è esattamente quello che è successo, basandoci sugli atti. È chiaro che questo creerà una reazione, ma il nostro intento era ricordare una storia che, a nostro avviso, è sempre stata tradita da una tesi o da un'ipotesi, e mai raccontata solo attraverso i fatti.
Cosa gli avete chiesto?
Leonardo Fasoli - Abbiamo cercato di evitare le domande che tutti gli avevano fatto su cosa fosse successo: ci siamo concentrati su come si sia sentito lui, sull’emozione che associa a quegli anni per lui difficili.
Stefano Sollima - Mi sono concentrato di più sui suoi ricordi del rapporto con gli interrogatori e su come quegli eventi abbiano segnato la sua vita. È difficile capire cosa ricordi veramente un bambino così piccolo dopo un trauma del genere e dopo essere stato, forse, un po' pilotato dai parenti. È un groviglio di trauma, lutto, e l'esperienza di essere testimone involontario della morte della madre.
La silhouette del mostro cambia a seconda del sospettato. Come è nata questa idea?
Stefano Sollima - Quella è esattamente la meraviglia dell'idea che ha avuto Leonardo. L'escamotage è anticipare nel delitto quello che sarà il prossimo "mostro". Quindi, in ogni episodio, colui che interpreta il mostro cambia. Questo ci ha dato anche la libertà di raccontare tutte le ipotesi, cambiando gli elementi incerti come il tipo di torcia o di coltello.
Non vi siete mai presi delle libertà narrative rispetto ai fatti?
Stefano Sollima - No, mai nessuna. C'è stato un lavoro di ricerca incredibile su tutto: costumi, auto, oggetti di scena. L'unico limite era la realtà dei fatti. Abbiamo ricostruito le scene basandoci sulle perizie medico-legali e balistiche, rimettendo gli attori nelle posizioni esatte, seguendo la sequenza dei colpi. È stato un lavoro gigantesco, non potevamo non farlo così.
Francesco Cappelletti, lei è stato consulente della serie. Si può usare il termine "mostrologo"? E qual è stata la sua esperienza sul set?
Francesco Cappelletti - Oggi, con i social e il self-publishing, chiunque abbia letto un libro pensa di avere la soluzione. Ci sono persone che se ne occupano correttamente e altre che usano toni eccessivi e irrispettosi, quasi da tifoseria da stadio. Io cerco di riportare i fatti in modo coerente. Sul set, ho vissuto momenti emotivamente molto forti: rivedere messi in scena quei fatti atroci mi ha spento la voce in gola più di una volta mentre li spiegavo al cast, per prepararli.
Inizialmente avevate vagliato l’ipotesi di un film. Perché alla fine avete optato per una miniserie?
Stefano Sollima - Ci abbiamo pensato, ma non ce l'avremmo fatta in un film, per una questione di tempo. La struttura a episodi monografici, dedicati a ciascun "mostro", ci ha permesso di usare salti temporali e di rivisitare le scene da punti di vista diversi, cosa che in un film sarebbe risultata confusionaria. Il materiale era enorme, e anche così abbiamo dovuto fare delle rinunce.
Avete pensato alle possibili conseguenze del vostro lavoro, un tam-tam sui social che potrebbe far emergere nuovi indizi?
Stefano Sollima - Sinceramente no, e forse è uno sbaglio che faccio da vent'anni! Non puoi porti il problema delle conseguenze, perché ti impedirebbe di fare bene il tuo lavoro. Quando fai un lavoro con rigore, serietà e onestà, senza la pretesa di dare una soluzione, è inevitabile che ci siano delle reazioni, ma non puoi pensarci prima. È tutto imprevedibile.
Quanto è stato complesso il lavoro con gli avvocati? E che effetto vi ha fatto rileggere i giornali dell'epoca?
Leonardo Fasoli - Incredibilmente, non abbiamo avuto problemi con gli avvocati. Prima abbiamo fatto un lavoro informativo con degli studi legali per capire cosa si potesse dire, e basandoci sugli atti giudiziari non ci sono stati problemi. Abbiamo consultato i giornali dell'epoca più per il clima generale e per alcune interviste, ma la nostra fonte primaria sono stati gli atti. E chi trema oggi a Firenze? Non credo ci sia nessuno che possa tremare.
Dato che la serie non si pronuncia in merito, lo chiedo qui: secondo voi l’assenza di un verdetto univoco è dovuta a vizi processuali o a un concorso di poteri?
Stefano Sollima - Credo a una concomitanza di cause: limiti tecnologici dell'epoca, pregiudizi culturali che hanno sviato le prime indagini e un'incredibile pressione mediatica che ha influenzato negativamente gli investigatori. Ogni volta che arrestavano qualcuno, il mostro colpiva di nuovo, forse per riaffermare la sua presenza, creando un'enorme responsabilità psicologica per chi indagava.
Leonardo Fasoli - Una volta esaurita la pista sarda, la Procura si è spaccata. Si è deciso di chiudere una porta. Il pregiudizio sul primo delitto, quello del '68, ha pesato: la vittima, Barbara Locci, tradiva il marito, quindi non si è indagato a fondo. Essendo stata usata sempre la stessa pistola, quel vizio di forma iniziale ha complicato tutto.
Francesco Cappelletti - La vicenda giudiziaria è complessa e claudicante. Per il delitto del '68 c'è un colpevole, Stefano Mele. Poi esce fuori Pietro Pacciani, a cui contestano anche quel delitto. Pacciani viene condannato e poi assolto. Poi i "compagni di merende", Lotti e Vanni, vengono condannati, ma solo per gli ultimi quattro duplici omicidi, perché il "chiamante in correità" rilascia dichiarazioni solo su quelli. È un quadro che convince poco, e forse è per questo che se ne parla ancora oggi.