Odiare Silent Hill f: come internet sceglie i suoi giochi divisivi
Come le echo chamber online costruiscono l'odio preventivo verso i videogiochi, da Myst a The Last of Us Part II
Uno dei momenti più memorabili di quest’anno videoludico è stato, per me, l’arrivo di Masahiro Ito su X. Lo storico art director della serie Silent Hill, con un inglese sorprendentemente limpido, interagisce quasi quotidianamente con fan appassionatissimi della saga. Accanto a decine di meritati complimenti arrivano anche domande pressanti, richieste infinite di chiarimento, nella speranza di strappare persino il più piccolo dettaglio su una delle serie più citate e reinterpretate dell’immaginario horror. I momenti migliori restano però quelli di debunking: teorie complesse, tramandate online come dogmi, vengono sgonfiate da laconici “no, James non è un violentatore”, “no, Pyramid Head non è la mascotte del franchise”, “no, non c’era alcun messaggio segreto nascosto nei modelli 3D”. Poche righe che bastano a generare stupore, insieme a un numero imbarazzante di repliche stizzite. Vederlo costretto a intervenire per ricordare che lui quel gioco lo aveva realmente fatto, e che certe interpretazioni nascevano più dal desiderio di possedere la lore, è stato rivelatore. Non si trattava di un semplice botta e risposta tra nostalgici, ma di un segnale preciso: nel dibattito online, l’autore rischia continuamente di essere estromesso dall’interpretazione della sua stessa opera. O almeno, questa è la riflessione che vorrei leggere più spesso, una volta superata l’immaturità granitica di chi preferisce trascinare la discussione su altri lidi.
Odiare Silent Hill, perchè non è per me
Con Silent Hill f il quadro si è ripetuto in forma nuova. Al momento della scrittura il gioco siede comodamente su un Metacritic di 86 e con un user score positivo (potete leggere la nostra opinione qui), eppure basta infilarsi nel subreddit dedicato o nei thread tematici per trovare un roboante coro di rigetto. Qualcosa però stonava in quei commenti. Il tono, ancora prima dei contenuti, mi riportava alla mente una sensazione già annusata in passato. Un deja-vu che solo dopo aver preso in mano il pad ho riconosciuto: erano gli stessi commenti che avevo letto all’uscita di The Last of Us Part II. Non identici nei dettagli, ma nel formato. Lo stesso vocabolario, la stessa ritmica. Frasi che sembrano copiate da un prontuario, come se qualcuno avesse dato il via a un rito collettivo in cui ciascuno ripete uno slogan. La cosa curiosa è che quasi mai queste frasi entrano davvero nel merito. Non si discute di level design, di bilanciamento, di qualità tecnica. Le contestazioni si incastrano sempre nelle stesse poche formule: “non è un vero Silent Hill”, “è politicamente spinto”, “non sembra horror”. Frasi generiche, incapsulate in un tono secco e definitivo.
Non un’argomentazione, ma un timbro. A volte viene portata come prova qualche immagine isolata o un frammento di cutscene, decontestualizzato e sufficiente a sorreggere la tesi già decisa in partenza. È l’esatto contrario di una critica: non parte dall’esperienza, ma da una percezione astratta che deve essere confermata. In questo, Silent Hill f rappresenta un caso interessante. Il gioco affronta questioni di identità e ruoli sociali con una scrittura più cruda di quanto siamo abituati a vedere in un prodotto di larga scala. Nella primissima pagina del diario virtuale della protagonista viene usata l’espressione “società patriarcale” (forse maldestramente tradotta in fase di adattamento, a giudicare da alcune testimonianze di chi ha giocato il titolo in lingua originale), ma è insindacabilmente il segnale di una precisa scelta d’autore. L’intera inquadratura del gioco si orienta verso una prospettiva di crescita femminile, mantenendo costante il fuoco su questo punto senza mai ridurlo a slogan o a semplice trauma. Sono le fondamenta da cui Ryukishi07 sviluppa la sua visione, intrecciando apertamente quelle passioni per il cinema di Satoshi Kon più volte dichiarate e che qui emergono in filigrana. Un primissimo piano in cui non c’è spazio per edulcorare la pillola.
Non è certo il primo titolo a farlo, ma è raro che un marchio con un nome così pesante scelga questa prospettiva. L’effetto branco non nasce tanto da cosa viene detto, quanto dal semplice fatto che la narrazione si permette di dirlo in maniera chiara. Lo fa senza mezzi termini, chiedendo al giocatore di immedesimarsi in un’allegoria lontana dalla quotidianità ma attuale nelle sue radici. È sufficiente ad innescare il meccanismo di rigetto. Ho passato ore a leggere thread dove i messaggi positivi - spesso firmati proprio da donne - venivano travolti da un’onda di downvote e reply aggressivi. La dinamica è ricorrente: una volta che il tono di una community si stabilizza, ogni voce dissenziente viene silenziata o ridicolizzata. Non si parla più del gioco, ma si difende il copione collettivo che dice di odiarlo. È la logica dell’assalto: non serve motivare, basta ribadire la parola d’ordine. Il gioco diventa pretesto. Non importa che funzioni o meno, che sia scritto bene o male. Importa solo che sia riconosciuto come “non per me”. E dunque respinto senza appello, bollato senza alcun motivo come ‘divisivo’.
Odiare Silent Hill, per sentito dire
“Divisivo” è diventato negli ultimi anni l’aggettivo che più detesto. È l’escamotage con cui si finge di fare critica senza mai davvero praticarla: si prende una sensazione soggettiva e la si traspone in carattere oggettivo universale, saltando però ogni passaggio analitico. Non sorprende allora che lo stesso riflesso riemerga su Silent Hill f e, per estensione, sull’intera saga. Non si tratta di stabilire chi sia un “vero fan” e chi no, ma di capire come nasca l’infondatezza di molte contestazioni. L’impressione, infatti, è che a parlare di Silent Hill online siano in tanti, ma che ad averlo vissuto pad alla mano siano stati relativamente pochi.
La saga, complice l’età e l’assenza di edizioni fedeli accessibili, è diventata più un mito che un’esperienza diretta. Esiste come costellazione di immagini, di citazioni e di frasi tramandate, molto più che come testo da attraversare. Chiunque abbia frequentato forum o social dedicati al gaming conosce bene questo fenomeno: la costruzione di un sapere “per sentito dire”. Nel caso di Silent Hill il processo è stato amplificato fino all’estremo. Video-essay su YouTube, clip isolate di momenti celebri, screenshot virali, meme: da questi materiali nasce una conoscenza secondaria che si spaccia per immediata. Nei commenti è normale trovare utenti che discutono di scene o di significati come se li avessero giocati in prima persona, quando in realtà li hanno solo assorbiti da altrove. È un telefono senza fili che si autoalimenta: il messaggio originale si distorce a ogni passaggio, ma continua a circolare come verità.
Il risultato è che quando un nuovo capitolo esce, non si confronta con la saga reale ma con una sua caricatura. Le critiche più feroci a Silent Hill f non partono da quanto sperimentato, ma dalla sua distanza rispetto a un canone immaginario che in realtà non è mai esistito. Si accusa il titolo di non rispettare una presunta essenza della serie, senza considerare che la saga è sempre stata mutevole, con capitoli estremamente divergenti tra loro. Ci si aggrappa a un concetto sedimentato nella memoria collettiva, e lo si usa come metro assoluto. Lo stesso “luogo dell’anima” citato a sproposito centinaia di volte, casualmente, sparisce quando non fa più comodo. È un fenomeno che riguarda anche altri titoli storici, ma in questo caso appare più accentuato: basta leggere i thread in cui gli utenti si citano a vicenda, richiamando frasi di recensioni vecchie di vent’anni o opinioni riportate in saggi divulgativi, come se fossero dati oggettivi. La discussione si fossilizza su idee che hanno perso il legame con qualcosa di assimilato in prima persona. Così Silent Hill f diventa il bersaglio di un attacco che non nasce dal contatto con il gioco, ma dalla difesa di un’immagine collettiva costruita nel tempo. Non si odia il titolo per quello che fa, ma per come incrina il mito.
Odiare Myst, perchè lo giocano tutti
Tutto ciò si lega a un altro episodio recente: durante l’estate appena terminata mi sono finalmente tolto un sassolino dalla scarpa e ho giocato per la prima volta Riven, apprezzandolo talmente tanto da chiedermi se non mi fosse piaciuto persino più del predecessore. Nel cercare una copia originale mi sono imbattuto in un bizzarro archivio di articoli e recensioni che inquadravano la ricezione di Myst da parte dei contemporanei. Ho in parte ritrovato quello che mi aspettavo: un best-seller inatteso, capace di uscire dalle nicchie e invadere i salotti, vendendo milioni di copie e portando il videogioco a un pubblico nuovo. Non “hardcore”, come piaceva dire alla stampa della generazione PS360, ma trasversale. Fu forse il primo, vero allargamento culturale di massa del medium, ironicamente nello stesso anno in cui su PC arrivava Doom. Quel successo però generò un contraccolpo sorprendente: se oggi Myst è ricordato come una pietra angolare, all’epoca non era sempre così rispettato. E qui devo ammettere che sono rimasto spiazzato: non ero a conoscenza di quanto fossero state aspre certe reazioni del pubblico.
Le critiche d’epoca, recuperabili nei meandri del web, non pungevano tanto le funzionalità meccaniche del gioco quanto la sua “funzione sociale”. Myst era “troppo lento”, “non un vero videogioco”, “adatto al massimo a casalinghe e cugini”. Etichette che, a leggerle oggi, suonano come tentativi di delegittimare un’esperienza che non si conformava al modello dominante, mascherando un fastidio culturale più che ludico. Alcuni articoli contemporanei descrivevano Myst come una deviazione contemplativa per il medium, un tradimento inaccettabile per certi forum.
Non a caso circolavano definizioni liquidatorie come “PowerPoint con enigmi” o “avventura grafica per le mamme”: non si colpiva il gioco in sé, ma il pubblico che lo aveva adottato, guardandolo con sospetto e (nemmeno troppo) velato fastidio. Myst diventa quindi un caso paradigmatico: l’odio retroattivo costruito attorno a esso serviva a preservare un’idea esclusiva di cosa fosse un “vero videogioco”. Rileggere oggi quelle recensioni e quei thread significa accorgersi che la paura dell’apertura del medium era già presente agli albori delle community online. Il parallelo con Silent Hill f diventa inevitabile: le accuse sull’eccesso di temi femminili, la marginalizzazione delle voci che lo difendono, la costruzione di una memoria deformata, non sono altro che la riproposizione aggiornata di quel vecchio meccanismo. L’unica differenza è che oggi le echo chamber hanno un’ampiezza e una velocità infinitamente maggiori, cristallizzando giudizi lontani anni luce dalle opere che vorrebbero danneggiare.