Jodie Foster, splendida (“francese”) in Vita privata di Rebecca Zlotowski.
“De Niro? All’inizio lo trovai poco interessante, poi mi illuminò. Hopkins: adorabile e spaventoso”.
Di Jodie Foster ne nasce una sola, punto. Quando la si sente parlare e raccontare della carriera (60 anni tondi), cominciata da bambina-prodigio, ogni aneddoto e curiosità diventano poi spunti di conversazione e riflessione. Ha fatto scuola, anche come ulteriore ispirazione, per le donne dietro alla macchina da presa, debuttando da regista nel 1991 (con Il mio piccolo genio), a cui poi sono seguiti altri lavori (A casa per le vacanze, Mr. Beaver, Money Monster). Ma è soprattutto la Foster attrice, celebrata al recente Marrakech International Film Festival, ad aver illuminato il sistema Hollywood, due premi Oscar (Sotto accusa e Il silenzio degli innocenti), rimettendosi in gioco ogni volta, dalla miniserie True Detective: Night Country al suo ultimo film, Vita privata (in sala dall’11 dicembre con Europictures, ndr) diretto da Rebecca Zlotowski. Qui interpreta una psichiatra, il cui lavoro viene messo in discussione, al punto da dover indagare riguardo al suicidio-omicidio (?) di una sua paziente. Un giallo psicologico e surreale, in cui recita perfettamente in francese, lingua che ha studiato da giovanissima, e che di fatto è un nuovo tassello da aggiungere al puzzle di una vita impossibile da emulare.
Parliamo un attimo di Vita privata: è un ruolo che ha particolarmente amato.
Rebecca riesce a riunire tanti generi diversi in un unico lavoro che ha un lato serio, intellettuale, ma che pone grandi domande, e che allo stesso tempo non si prende troppo sul serio, ha anche un lato leggero. La sceneggiatura aveva slancio, era da molto tempo che desideravo fare un film francese in francese, ne ho fatti alcuni nella mia vita, ma solo piccoli ruoli, quindi questa si è presentata come un'opportunità per fare qualcosa di più grande. Mi sento diversa quando parlo francese, ho una voce più acuta, credo che questo mi renda un po' più insicura, un po' più vulnerabile, anche perché ho sempre paura di non riuscire a trovare le parole giuste o a comunicare bene. Divento nervosa, cosa che normalmente non mi succede, e non lo sono, qui invece è stato interessante. Ci siamo trovati davvero in sintonia, ha messo insieme un cast miracoloso, non riesco a credere a quanto siamo fortunati .
Qual è il segreto di tanto entusiasmo?
Sono una grande appassionata di cinema, lo sono sempre stata e lo sarò sempre, amo i film. Credo che la mia giornata ideale sia alzarmi la mattina, magari fare un po' di sci, e poi passare il resto della giornata a guardare film e mangiare. È tutto quello che ho sempre voluto fare. Non voglio ripetere cose che ho già fatto in passato, inoltre, se non lavoro per molto tempo mi sento molto insicura. Devo tornare sul set e dimostrare di nuovo il mio valore e girare un film,è lì che mi sento più me stessa.
I suoi personaggi variano, ma reagiscono sempre, sono molti forti: cosa la attrae di più?
Da giovane volevo essere al centro dell'attenzione, non essere la sorella di, la moglie di, la figlia di, la fidanzata di. Volevo solo che il film parlasse di me e che fosse un viaggio solitario, non mi interessava molto chi fossi in relazione agli altri. Desideravo che i lavori parlassero del mio viaggio e della mia trasformazione. Ero terribilmente egocentrica, come tutti noi in quegli anni, ma reagivo anche a una seconda ondata di interessi femministi che dicevano:
"Voglio contare qualcosa, voglio fare film che contano, in cui sono un essere umano e non solo la fidanzata o l'oggetto di qualcuno”.
Quelle decisioni inconsce furono interessanti. C’ho pensato: ho interpretato molte vittime nei primi 30 anni di vita senza capire davvero perché. Poi, quando si invecchia, inizi a guardare dietro, a capire le tue scelte.
E cosa ha scoperto in tanti anni?
In parte è dovuto al modo in cui ci sono arrivata. Io non avrei mai voluto di diventare un attrice, non ne avevo la personalità. In realtà è stato solo un lavoro crudele scelto per me quando ero giovane, e non ricordo nemmeno di aver iniziato. Da bambina ero un tipo solitario, leggevo, E poi un giorno mi hanno assegnato un lavoro, nel quale non avevo nessuna preparazione, e in cui la gente diceva: "Ok, ora fai finta che quello sia tuo nonno e piangi". E io pensavo: "come faccio a farlo?". Per sopravvivere ho dovuto imparare a essere una persona più emotiva, spirituale e psicologica. Mi interessano cose diverse, ma bisogno di molto tempo per recuperare, oggi sono molto selettiva su ciò che faccio.
Taxi Driver compirà 50 anni l’anno prossimo: che ricordo ha di quella svolta?
Iniziai a tre anni, facendo pubblicità e cose del genere, a sei ero già in una serie televisiva di grande successo, feci il primo film, a dodici smisi di fare televisione, alternando lavori Disney e cartoni animati. Lavoravo tanto, avevo però una visione diversa di cosa fosse la vita di un attore, pensavo fosse semplicemente che qualcuno ti desse un copione, tu leggessi le battute, le imparassi, magari ne mettessi in discussione alcune, e poi ti venisse detto di recitare in modo naturale. Tutto lì, mi dissi: "wow, non è un lavoro interessante. Non mi basta". Dunque sono andata a girare Taxi Driver di Martin Scorsese, De Niro mi prese sotto la sua ala protettrice.
Che rapporto si instaurò tra di voi?
Veniva a prendermi nella mia stanza d'albergo insieme a mia madre, andavamo in questi bar e ripassavamo le battute. De Niro è uno dei più grandi attori americani, sono molto orgogliosa di aver lavorato con lui, ma non è la persona più interessante del mondo. A quel tempo, era molto concentrato sul personaggio, come era solito fare in quei giorni. Ricordo che durante i pranzi con lui pensavo: "Quando finirà e potrò andare a casa? Cosa sta succedendo? Non era in grado di parlare con me, lo faceva con i camerieri e le persone del ristorante. Ma poi, durante il nostro terzo pranzo insieme, mi ha finalmente guidato attraverso l'improvvisazione, aprendomi gli occhi su cosa potesse essere la recitazione. Mi limitavo a recitare le battute, aspettando la prossima, ma costruire un personaggio è qualcosa di diverso. Ricordo quanto fossi emozionata, ero sudata, eccitata e euforica, tornai nella mia stanza d'albergo per incontrare mia madre e le dissi queste parole: "Ho avuto questa illuminazione". Penso che da quel momento tutto sia cambiato.
E con Anthony Hopkins (ne Il silenzio degli innocenti, ndr) come andò invece?
Era adorabile, ma anche spaventoso. Non avevo avuto modo di parlargli prima di iniziare le riprese, stava girando un altro film, rimase solo per un paio di settimane. Lo misero nella sua gabbia e poi abbiamo girato direttamente davanti alla telecamera, lui guardava nell'obiettivo. Non abbiamo mai avuto modo di parlare tra noi. Arrivati alla fine del film ci siamo resi conto che entrambi avevamo davvero paura l'uno dell'altro. Mi disse, io stavo mangiando un panino al tonno. "Avevo paura di te". Risposi: "Anch'io". Da allora siamo diventati amici.
Tra tanti registi con cui ha lavorato c’è anche David Fincher in Panic Room.
Il film più lungo che abbia mai girato con cinque persone al buio in un edificio. Penso di non aver mai imparato tanto da nessun altro regista quanto da David Fincher. È una scuola di cinema a sé, fu un momento molto particolare della mia vita, ero incinta e avevo già un figlio, e pensavo: "Oh, chissà come sarà questo prossimo bambino". Eccomi qui, bloccata in un armadio con una bambina di 12 anni (Kristen Stewart, ndr) per mesi. Mi chiedevo: "Chissà come sarà questa bambina quando crescerà?". E naturalmente, segretamente, pensavo: "Forse avrò una figlia e saremo proprio uguali".