Rapina al Banco Central: la storia vera e la miniserie di Netflix
Fra realtà e finzione, una storia complessa
Miguel Bosé, Raffaella Carrà, Amanda Lear: la colonna sonora di Rapina al Banco Central, la miniserie di Netflix, fa sentire a casa anche noi italiani. Ma la situazione in Spagna nel 1981 era molto, molto diversa dalla nostra. E per parlare della trasposizione di questa storia vera, dal libro di Mar Padilla, è necessario comprenderlo.
La premessa storica
Il libro di Padilla usa uno stile preciso, che combina elementi giornalistici e narrativi creando un racconto avvincente che ricorda - leggere per credere - i film degli anni ’80. E forse è proprio questo che si sarebbe dovuto realizzare per raccontare questa storia: un film.
La miniserie indugia troppo, nel corso dei suoi 5 episodi, su piste che sembrano sviare lo spettatore rispetto alle reali motivazioni dei rapinatori e sulla storia personale della giornalista Maider Garmendia (María Pedraza, La casa di carta), che indaga sugli autori e la motivazione della rapina.
Anche le implicazioni politiche che riguardano il passato di Numero 1, all’anagrafe José Juan Martínez Gómez, interpretato da Miguel Herrán (Rio ne La casa di carta).
La storia pseudo-romantica di un ragazzo che in prigione scopre la passione politica, che secondo lui si può esprimere efficacemente rapinando banche, non arriva al cuore dello spettatore: semplicemente, non crediamo alla sua copertura. Così come non ci crede Maider, che considera gli 11 uomini armati come criminali comuni. Si definiscono anarchici, si dicono prigionieri politici, ma ciò che fanno in realtà è semplicemente rubare per fare tanti soldi in fretta, e senza sforzo.
L’episodio 4, intitolato appunto “Numero 1”, racconta la storia di José ammantandola di un romanticismo avventuroso che il personaggio nella realtà non aveva. Certo, può trattarsi di una scelta stilistica come l’aggiunta del personaggio di fantasia Maider Garmendia, ma un conto è creare un personaggio dal nulla, inserendolo nella storia, un altro travisare la natura delle persone realmente esistite.
Si tratta di un’operazione rischiosa, insomma, portare in scena eventi così radicati nella storia di un Paese con la volontà di alimentare quelle teorie del complotto che il libro da cui è tratta la serie voleva smontare.
Gli attori sono bravi, nulla da dire. È l’approccio - e la lunghezza, anche - a non essere perfetto.
Flashback e complottismo a parte, la miniserie funziona. Fotografia e scenografie restituiscono l’atmosfera giusta, spingendoti a proseguire la visione..