Monster - La storia di Ed Gein: quando l'orrore diventa caricatura
La nuova serie di Ryan Murphy e Ian Brennan ci accompagna a scoprire la storia del crudele serial killer, interpretato da Charlie Hunnam in una storia involontariamente caricaturale. Su Netflix.
Buona parte del grande pubblico, in cerca di storie crime ispirate a fatti di cronaca nera realmente accaduti, si è ormai assuefatta alla macchina da soldi di Ryan Murphy e Ian Brennan, e ha perciò destato molta attesa l'annuncio da parte di Netflix del terzo capitolo della saga Monster, dopo il successo (discutibile) di Dahmer e il dramma familiare dei fratelli Menendez.
Un'attesa ancora più grande dato che La storia di Ed Gein vede per assoluto protagonista un serial killer che ha ispirato figure iconiche del mondo del cinema come Norman Bates in Psycho (1960), Leatherface in Non aprite quella porta (1974) e Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti (1991), solo per citare i più famosi. E sono proprio questi tre cult citati a fare la loro comparsa in una manciata di sottotrame, più o meno corpose, che cercano di creare un parallelismo tra la finzione e la realtà, in otto puntate che provano a imbastire un ritratto del supremo orrore senza però trovare il giusto equilibrio narrativo.
Monster: uomo o mostro?
La vicenda ha inizio nel Wisconsin e segue Ed Gein, un ragazzo possente affetto da disturbi cognitivi e varie stranezze, che lavora nella fattoria di famiglia sotto lo sguardo vigile della madre Augusta, profondamente devota e pronta a tutto pur di impedire al figlio di avere contatti con altre figure femminili. Quando l'anziana donna rimane vittima di un ictus, conseguente al ritrovamento senza vita dell'altro figlio - ma il pubblico sa già che Ed ha messo lo zampino nella dipartita del fratello - e in seguito perde la vita per un accesso d'ira, il protagonista si ritrova solo al mondo.
Intreccia una relazione con Adeline Watkins, una giovane del paese stramba quanto lui, e inizia a commettere una serie di crimini raccapriccianti, uccidendo donne con cui aveva avuto rapporti sessuali e profanando corpi senza vita dai cimiteri. Una scia di sangue ben lungi dalla sua conclusione...
Dietro la maschera poco rimane
Charlie Hunnam, in un primo tempo restio a vestire un ruolo effettivamente scomodo, interpreta Ed Gein come un sempliciotto dalla voce impastata e dallo sguardo sbilenco, inghiottendo le parole con un tono acuto che rischia in più occasioni di scadere nella caricatura. Una performance a tratti coraggiosa, ma non sempre supportata da una sceneggiatura che gli offre compiti ingrati e grotteschi, con le sue perversioni sessuali - in primis l'indossare biancheria intera femminile - che danno vita a passaggi involontariamente ridicoli. Uno show da circo ambulante che finisce per depotenziare l'anima dark di un assassino che, per quanto malato, qui sembra in più occasioni giustificato dal suo deficit mentale.
Si spinge il pubblico a considerarlo come un essere umano nonostante quelle azioni abbiette delle quali si è macchiato, con le ultime puntate a tentare quasi di riabilitare la sua figura in una sorta di pentimento e ritrovata lucidità, coincidente con la collaborazione con le forze dell'ordine per catturare quei suoi emuli che infestavano gli States - similitudini quindi con l'Hannibal Lecter del romanzo di Thomas Harris.
Il problema centrale sta proprio nell'accentuata ambiguità di Gein, con la serie che non riesce mai a decidere cosa vuole essere. Lui stesso sostiene a un certo punto: "Non so chi sono o perché faccio le cose che faccio", trasformando il tutto in uno studio dell'impatto della sua immaginazione più che della sua realtà. Alcune scelte, come quella relativa all'inserimento della criminale di guerra nazista Ilse Koch - una Vicky Krieps sprecatissima - in una sorta di dialogo "a distanza" con le nefandezze compiute dal Nostro, risultano mal amalgamate al contesto e il richiamo all'immaginario di Hollywood è del tutto gratuito.
Dal piccolo al grande schermo
Da Anthony Perkins affetto da "sodomia" ad un Alfred Hitchcock - un irriconoscibile Tom Hollander sotto un trucco a dir poco mal riuscito - ossessionato dal successo del suo Psycho, fino a Tobe Hooper che durante le riprese di Non aprite quella porta è convinto che il pubblico di suoi connazionali si meriti quella sporcizia fisica e morale, ciò che concerne la Settima Arte viene trattato con estrema superficialità, un inutile corollario alla vicenda principale che nel frattempo cerca, invano, di trovare una propria identità.
Il tono dell'operazione passa da picchi di alta tensione, con il dramma delle potenziali vittime esposto almeno in un paio di passaggi con una certa violenza psicologica, al camp di altre situazioni, nel tentativo forse di far dimenticare l'indole assassina di un personaggio che diventa sempre più ingombrante e ingestibile. Il tutto in un'America che diventa satura dell'orrore, tra mercatini che vendono oggetti appartenuti al criminale e quell'audience che nel buio delle sale celebra le pellicole exploitation.
La quasi totalità delle puntate sfiora l'ora di durata, davvero eccessiva per quanto vi fosse effettivamente da raccontare e da dimostrare, e infatti non mancano i tempi morti ad appesantire un'esposizione già di per sé poco fluida, con i succitati cambi di ambientazione o registro che risultano spesso fuori luogo. Si vive di qualche sussulto qua e là, affidato soprattutto alle spalle di Hunnam che si impegna con lodevole stoicità ma poco può per risollevare il destino di una storia che cade inevitabilmente nel kitsch.