Eriksholm: The Stolen Dream – Recensione di uno stealth narrativo intrigante
Una fuga silenziosa, una città da decifrare, tre protagonisti complementari. Riverend Games firma un titolo isometrico ricco di atmosfera, ma non privo di rigidità.
Eriksholm: The Stolen Dream non è interessato a raccontare un altro conflitto in cui mimetizzarsi è solo il pretesto per preparare il colpo perfetto, né a replicare le dinamiche da fuoriclasse dell’infiltrazione che da decenni caratterizzano buona parte della produzione stealth. Al contrario, ciò che definisce l’esperienza proposta da River End Games è un senso di sospensione costante, un'attenzione maniacale per i dettagli, che trova forma in una struttura ben codificata, in cui ogni deviazione dal percorso è punita non come fallimento ludico, ma come -semplice- interruzione narrativa.
A muoversi in questa città non è una spia, né un soldato, né una figura addestrata a cavarsela in qualsiasi circostanza, ma Hanna, una ragazza ostinata e lucida, spinta da una determinazione che ha la forma concreta dell’affetto e della necessità: quella di ritrovare suo fratello Hermann, sparito in circostanze misteriose dopo essere partito per una classica ricognizione della città.
A chi è abituato a pensare i giochi stealth come esercizi di creatività, Eriksholm potrebbe apparire inizialmente come una prigione ben decorata, fatta di percorsi lineari, checkpoint ravvicinati e guardie dai movimenti prevedibili, ma questa apparente rigidità è in realtà una precisa grammatica che guarda a raccontare una storia drammatica, piuttosto che arricchire il gameplay con elementi scenici e spettacolari.
Il paragone con i titoli di Mimimi, da Desperados III a Shadow Gambit, è inevitabile, ma fuorviante se ci si ferma all’estetica o alla visuale isometrica: perché Eriksholm non vuole farti sentire brillante, né offrirti mille possibilità con cui eliminare un nemico, bensì tenerti praticamente sospeso costantemente, come se ogni movimento fosse osservato da una città intera, e il tuo unico potere fosse quello di rimanere invisibile il più a lungo possibile.
In questo paesaggio urbano così sorvegliato e segnato da un senso costante di compressione sociale, non è difficile riconoscere le stesse inquietudini che attraversano V for Vendetta: l’idea di un ordine costruito sulla paura, di un’autorità che richiede obbedienza, e di una ribellione che si manifesta nei gesti più piccoli e nelle persone che non si piegano.
Eriksholm è una città che nasconde più di un problema sociale
Eriksholm: The Stolen Dream non affida il proprio cuore narrativo a un classico intreccio investigativo, ma costruisce una storia emotivamente stratificata, dove la progressione degli eventi è fusa al contesto urbano e sociale in modo quasi organico. La protagonista, Hanna, non è un’eroina destinata a salvare il mondo, ma una figura fragile, determinata, lucida nel portare avanti una sola missione: ritrovare suo fratello Hermann, scomparso senza lasciare spiegazioni dopo essere entrato in possesso di un oggetto prezioso.
Il legame tra i due non viene mai ostentato o raccontato con flashback cinematografici: affiora invece nei silenzi, nei commenti sommessi, nei pensieri che Hanna esprime quando legge un documento generico o attraversa un quartiere carico di ricordi. È un affetto trattenuto, più reale proprio perché non dichiarato, e che diventa il motore di una ricerca che si trasforma presto in qualcos’altro: una lenta discesa nel cuore corrotto di una città che finge di funzionare, mentre in realtà sta franando su se stessa.
Eriksholm, ispirata ai centri urbani nordici di inizio Novecento, è più di un’ambientazione: è un organismo sociale vivo, mutevole, quasi addirittura "colpevole" di come stanno andando le cose. Una metropoli agnostica e stratificata, dove ogni distretto racconta una storia diversa, e dove l’architettura stessa diventa espressione di controllo: ponti meccanici, fabbriche su più livelli, accessi nascosti, passaggi sorvegliati. Il giocatore è chiamato a muoversi in uno spazio che è al tempo stesso labirinto e trappola, città e nemico. Un sistema che sorveglia, isola, reprime. Ma che non è immune a incrinature. E sarà proprio tra queste crepe che Hanna inizierà a cogliere segnali ambigui, presenze oscure dietro coloro che controllano la città, volti che si rivelano solo quando ormai è troppo tardi.
La forza della narrazione risiede proprio nella sua coerenza sottile: ogni NPC, ogni frase rubata per strada, ogni sguardo evita sciocchezze per restituire un mondo vissuto, credibile, fatto di dialoghi semplici ma densi, conversazioni quotidiane che nascondono disagio, omertà o addirittura paura. E se all’inizio si ha l’impressione che il nemico sia soltanto la polizia, con le sue uniformi e i suoi interrogatori sbrigativi, presto si intuisce che la vera minaccia è più complessa, più insidiosa. Si cela nella struttura stessa della città. E forse anche nelle intenzioni di chi credevamo di conoscere.
Un altro elemento narrativo cruciale è rappresentato dalla malattia che ha colpito la città, e da cui Hanna è miracolosamente guarita. Anche se il gioco non la mette mai in primo piano, la sua presenza è ovunque: nei manifesti sbiaditi, nei letti vuoti di alcune case, nelle casse sigillate ai moli. Non viene mai spiegata davvero, e forse proprio per questo funziona: un’epidemia silenziosa che ha lasciato cicatrici nel tessuto urbano e nelle persone, che ha giustificato controlli più rigidi, che ha permesso al potere di espandersi. In questa cornice, il gesto di Hanna non è solo un atto personale, ma anche un piccolo atto di resistenza contro il "ricco" che diventa quasi "malvagio" senza volerlo.
Non c’è nessun eroe da impersonare, né un villain monolitico da abbattere. C’è solo una ragazza che non vuole smettere di cercare suo fratello. E una città che, a ogni angolo, sembra ricordarle quanto poco contino i desideri, quando il sistema ha già deciso per te.
Tre anime contro Eriksholm: Hanna non sarà sola nella ricerca del fratello
All’inizio di Eriksholm: The Stolen Dream c’è solo Hanna. Nessuna squadra da coordinare, nessuna meccanica combinata. Solo una ragazza che si muove in punta di piedi attraverso una città sconosciuta, ostile, fredda. Ma col passare delle ore, il gioco cambia pelle: alla progressione narrativa corrisponde una trasformazione meccanica, che rende l’esperienza sempre più tattica e orchestrata. È qui che entrano in scena Alva e Sebastian, e con loro un nuovo livello di complessità.
Hanna resta il fulcro: la sua cerbottana soporifera è utile per eliminare i nemici a distanza, ma non basta. Le guardie reagiscono con allarme anche solo alla vista di un corpo disteso. L’errore non si paga con una rincorsa o una lotta: si viene semplicemente rimandati all’ultimo checkpoint, senza appello (e va detto che quest'ultimi sono collocati in modo davvero generoso). Quando entra in gioco Alva, il campo si apre: la sua fionda permette di colpire e distruggere fonti di luce, creando zone d’ombra in cui riposizionarsi e non essere visti. E quando infine arriva Sebastian, con la sua abilità nel nuoto e nelle eliminazioni silenziose (che ricordano il berretto verde di Commandos), il gioco smette di essere un esercizio solitario e diventa una partitura a tre voci, in cui il timing e la lettura dell’ambiente sono tutto.
Le sezioni che coinvolgono più personaggi sono tra le più impegnative e appaganti, perché non esistono scorciatoie: ogni situazione richiede di sfruttare le abilità specifiche di ciascuno. Hanna si infila nei condotti, Alva scala le tubature, Sebastian attraversa i canali. Ma senza coordinazione, il sistema si blocca. Non si tratta di scegliere come risolvere un problema, ma di comporre la sequenza corretta per farlo.
Questa filosofia si riflette nel level design, e forse proprio qui si coglie l’autorialità più nitida di Eriksholm. Ogni mappa è pensata come struttura architettonica funzionale: scale, piattaforme sopraelevate, vicoli ciechi, passerelle meccaniche. Il mondo di gioco non è solo disegnato: è costruito, ed è costruito per raccontare. La verticalità, i passaggi nascosti, la disposizione delle luci e delle ombre diventano strumenti narrativi e tattici insieme.
La visuale isometrica, liberamente ruotabile, favorisce l’osservazione attenta, la lettura strategica degli spazi, l’anticipo dei movimenti nemici. Il confronto con Commandos e Desperados III viene naturale, ma Eriksholm preferisce i tempi lunghi, la precisione millimetrica, il rischio costante di fallire. Non si tratta di dominare il campo, ma di sopravvivere senza lasciare tracce.
A rendere l’azione più sfaccettata concorrono anche alcuni elementi ambientali integrati nel contesto di gioco, che funzionano sia sul piano visivo che meccanico. Gli stormi di uccelli, ad esempio, possono essere fatti volare intenzionalmente per distrarre le guardie, attirandone l’attenzione verso una direzione opposta a quella del personaggio. Le grate metalliche, invece, producono rumore se calpestate, rendendo ogni movimento una scelta rischiosa in termini di timing e percorso. Anche i macchinari a vapore, che spostano ostacoli o creano barriere temporanee, vanno letti e sfruttati come parte del puzzle generale.
Eriksholm non è un titolo sandbox. Non vi chiede di inventare soluzioni. Vi chiede di capire un sistema narrativo tramite l’interazione, e di abitarlo rispettandone ritmo e logica. E quando finalmente tutti e tre i personaggi sono in scena, il gioco non diventa solo più ricco: diventa più vero. Per i giocatori alla ricerca di una sfida stratificata questo potrebbe risultare come un difetto, ma possiamo assicurarvi che comunque il titolo di River End Games ha una storia da raccontare che vi piacerà.
River End Games propone una visione autoriale intrigante e immersiva
La forza tecnica di Eriksholm: The Stolen Dream non esplode in effetti spettacolari o scenari da cartolina con grafica iper realistica, ma si rivela nella compostezza visiva, nella cura delle geometrie, nella regia silenziosa di un mondo pensato per essere osservato da lontano. L’adozione della visuale isometrica non è una scelta nostalgica, né un compromesso tecnico: è una dichiarazione di intenti autoriale, che definisce il modo stesso in cui viene letto e interpretato lo spazio. Ogni scorcio, ogni angolo urbano, ogni composizione è costruita per comunicare: non solo mostrandoci i luoghi, ma anche trasferendoci un senso di tensione crescente.
Il merito è anche della regia, che si mantiene costante per tutta l’esperienza: le cutscene, distribuite con intelligenza tra i vari capitoli, non si limitano a fare da raccordo narrativo, ma rafforzano la coerenza estetica e il tono emotivo dell’intero gioco. Anche nei momenti più statici o nei passaggi di transizione, il montaggio e l’illuminazione rimangono precisi, misurati, sempre in linea con l’eleganza trattenuta che caratterizza Eriksholm.
Sul piano acustico il discorso è più sfumato. L’ambiente sonoro è immersivo, ma non sempre omogeneo: alcune aree risultano più ricche e stratificate, come i quartieri industriali o le zone portuali, mentre altre tendono a essere più spoglie. Tuttavia, questo piccolo disequilibrio è compensato da un doppiaggio in lingua inglese sorprendentemente efficace: le voci principali risultano credibili, naturali, perfettamente in sintonia con la scrittura e con il carattere dei personaggi. Hanna, in particolare, riesce a trasmettere vulnerabilità e determinazione con un tono asciutto ma coinvolgente.
Dal punto di vista della giocabilità, il titolo sorprende per la pulizia dell’interfaccia, praticamente assente, e per la perfetta compatibilità con il gamepad. Nessuna frizione nei controlli, nessun menù invasivo: l’esperienza è pensata per essere vissuta con massima concentrazione sul contesto, senza distrazioni o sovrastrutture. È un gioco che lascia parlare il mondo, più che i pulsanti.
Eriksholm non punta a impressionare con la tecnologia: punta a rendere invisibile tutto ciò che può interrompere l’immersione, e in questo riesce con eleganza quasi disarmante.