We Are the World: su Netflix il film documentario sulla canzone che ha cambiato il mondo

Tutti i segreti sulla magica notte di registrazione di We Are the World in un film documentario inedito

di Chiara Poli

Non è necessario ricordare, in mancanza di un walkman, non ancora arrivato sul mercato, di aver ascoltato fino allo sfinimento quella cassetta in un registratore portatile, dando il tormento a mia madre per mesi.

Non serve appartenere alla mia generazione e avere i brividi ricordando l’impatto che quella notte ebbe sulla storia della musica e sulle vite di tutti noi.

Basta guardare il film di Netflix dedicato a We Are del World: La notte che ha cambiato il pop, per capire la portata di quell’evento.

Il trailer del film-documentario lo annuncia come la notte in cui furono riuniti “i più grandi talenti di quella generazione”, ma non erano solo questo. Erano alcuni dei più grandi artisti nella storia di tutti i tempi.

Nella musica, nel cinema, nell’impegno sociale - quello vero, fatto alla luce dal sole, senza specularci sopra.

L’esperienza di Band Aid, voluta da Bob Geldof con la realizzazione della canzone Do They Know It’s Christmas? a opera di un gruppo di super-artisti britannici con scopi benefici.

Ma ciò che successe quella notte, il 28 gennaio del 1985, non aveva precedenti.

Perché c’è una cosa fondamentale da capire: Stevie Wonder, Quincy Jones, Lionel Richie, Michael Jackson (fresco dalla pubblicazione di Thriller, l’album più venduto nel mondo fino a quel momento) e tutti gli altri coinvolti nel processo creativo erano già Stevie Wonder, Quincy Jones, Lionel Richie e Michael Jackson.

Erano i più grandi.

I più ascoltati.

I più amati.

E misero in siete il gruppo di artisti più straordinario che il mondo avesse mai visto, grazie - fra gli altri - a Harry Belafonte e Kenny Rogers.

USA for Africa


I millennial non ne hanno idea ma negli anni ’80, quando il mondo era ben lontano dall’essere un grande villaggio globale grazie a internet e ai mezzi di trasporto superveloci, grazie alla nascita del supergruppo chiamato USA for Africa, finalmente tutti sapevamo che in Africa i bambini morivano di fame e tutti volevamo fare qualcosa per cambiare le cose. Naturalmente, senza avere la più pallida idea degli interessi che c’erano in ballo per mantenere l’Africa in quelle condizioni. Non l’avevamo noi, così come non l’avevano gli USA for Africa.

Ma avevamo tutti una cosa in comune: eravamo stati educati a preoccuparci dei meno fortunati, a essere sempre pazienti e gentili coi diversamente abili, a cedere il posto agli anziani sugli autobus e ad aiutare le proverbiali vecchiette ad attraversare le strade.

Eravamo davvero convinti di poter cambiare le cose, ignari di interessi molto più grandi di noi.

Eravamo la generazione che voleva cambiare il mondo. Come tutte le altre generazioni.

Ed eravamo i fan dei più grandi artisti contemporanei di quell’epoca. Trovarli tutti riuniti in un gruppo, a cantare la stessa canzone, era qualcosa che non potevamo nemmeno immaginare.

Mentre gli USA for Africa venivano chiamati e accettavano di unirsi, Lionel Richie e Michael Jackson scrivevano la canzone che avrebbe fatto storia.

Gli USA for Africa erano 45. I più grandi 45 del mondo. Oltre ai già citati c’erano il Boss, Bruce Springsteen, e Ray Charles. Bob Dylan e Paul Simon. Diana Ross, Cindy Lauper, Tina Turner, Dionne Warwick e Bette Midler. Dan Aykroy - il Blues Brother e il Ghostbuster più famoso del mondo - Kenny Loggins e tutti i fratelli Jackson, inclusa La Toya. Bob Geldof, la mente dietro a Band Aid, che accettò con entusiasmo e che, insieme ad Aykroyd (non tutti sanno che è canadese) era l’unico non statunitense. C’erano Huey Lewis e i componenti del suo gruppo, Billy Joel…

Erano tantissimi e formavano il gruppo di artisti più memorabile che si fosse mai visto, e anche la scelta che fecero fu memorabile.

La notte degli American Music Awards, presentata da Lionel Richie (che nel frattempo portò anche a casa qualcosa come 6 premi), tutti i giornalisti chiedevano della registrazione che sarebbe seguita alla premiazione. Ma il progetto era ancora top secret. Così si creava quello che oggi chiamiamo hype, all’epoca.

Un palco rotondo in cui tutti potessero guardarsi mentre cantavano insieme. Le storiche parole di Quincy Jones, scritte sul biglietto che accoglieva gli artisti: “Lasciate il vostro ego fuori dalla porta”.

Il primo ad arrivare fu Michael Jackson. E vedere, nel film-documentario di Netflix, le immagini di Jacko mentre cantava da solo, fanno venire i brividi. Pochi sapevano chi fosse presente, e mentre arrivavano e vedevano chi altro c’era si emozionavano anche gli artisti stessi.

Bob Geldof, appena tornato dall’Etiopia - il Paese che aveva voluto aiutare fondando Band Aid - disse poche parole raccontando ciò che aveva visto. Qualcuno aveva le lacrime agli occhi. Nessuno aveva idea del vero motivo per cui fossero qui. Si fa presto a dire “scopi benefici”. Altra cosa è immaginare, nello specifico, le situazioni per cui si sta lavorando. Ecco cosa c’era di davvero straordinario.

Una sola, magica notte

Incidere la canzone, girare il video musicale, tenere a bada 47 grandi personalità - che non sarebbero rimaste 47 - in una sola, magica notte.

Piena di eventi inediti che questo documentario vi svelerà, e a cui non credereste se ve li raccontassi qui.

Non vi resta che una cosa da fare.

Guardare questo documentario.

Che apparteniate alla mia generazione o a quelle successive.

Se siete come me, vi commuoverete, vi emozionerete e rivedrete gli artisti con cui siete cresciuti e che oggi non ci sono più.

Tornerete indietro nel tempo, risentendo quelle note e quelle voci.

Se siete (anche molto) più giovani, assisterete comunque a uno spettacolo magnifico. E magari vi verrà voglia di scoprire la musica di quegli artisti che ancora non conoscete.